La polenta ignorante tra fare e rovesciare
«Chi nó ména nó treèca». Cari lettori di Dialèktika, ho un problema di traduzione. E di fronte ai problemi - ho imparato - è sempre meglio verificare due volte. Questa rubrica mi ha dimostrato una volta di più che «sa fà a la svèlta a éser ’gnoràncc», che essere ignorante è la cosa più facile del mondo. E infatti - come ricordavano i nostri vecchi - «per éser ’gnoràncc ocór mìa ìga stüdiàt tant». Purtroppo ’gnorànt lo sono stato anch’io (nel senso di ignorare e non nel senso di «’GNUrànt con la GNU maiuscola», ci tengo a sottolinearlo).
In una delle ultime rubriche, quando ricordavo il modo di dire «dàghel a Ghéda» ho scritto che Gheda era la ditta che portava via «lo sporco» in città fino agli anni Cinquanta. Non è così. Me lo hanno fatto sapere - puntualmente e carinamente - sia i lettori sia il figlio di uno dei Gheda della ditta, che era una un’azienda di porta Milano che fino al ’68 trattava metalli. Chi raccoglieva «lo sporco» prima di Asm era invece - mi dicono - la Ceresetti&Rossi. Tutti però mi confermano che il modo di dire «dàghel a Ghéda» circolava eccome.
Ma eccoci al problema di traduzione. «Chi nó ména nó treèca». Due possibilità: il verbo menà tra l’altro vuol dire condurre ma anche rimestare. E il verbo treecà è un rovesciare che può assumere colori diversi. Allora «Chi nó ména nó treèca» può voler dire che solo chi non trasporta cose non potrà mai avere la sfortuna nera di rovesciarle (solo chi non fa non sbaglia). Ma magari il colore del detto «Chi nó ména nó treèca» è il giallo della polenta: per avere la soddisfazione di mangiarla devi fare la fatica di mescolarla. Voi che dite?
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