Il governo Lula alla prova di maturità

Il governo Lula è al secondo anno. Ricordiamo che il «presidente operaio» al suo terzo mandato aveva preso possesso della carica di presidente nel gennaio 2023 dopo una elezione sul filo del voto contro l’ex presidente Jair Bolsonaro (ottobre 2022), leader dell’estrema destra.
A pochi giorni dalla cerimonia ufficiale, i «bolsonaristi», guidati dal loro leader, fuggito negli Usa alla fine di dicembre del 2022, con l’appoggio anche di alcuni settori dell’esercito, della polizia e delle istituzioni, avevano attaccato i centri della democrazia brasiliana nella capitale Brasilia.
Per il «Gigante» sudamericano il 2023 è stato l’anno delle ricostruzione sulle macerie di quattro anni di governo Bolsonaro, caratterizzato da una gestione del Covid negazionista e ai limiti del genocidio, il dissesto ambientale, amplificato dallo sfruttamento senza limiti delle enormi risorse naturali (il «garimpo»), indici di crescita del PIB molto bassi, allargamento della diseguaglianza e della povertà.
Il primo anno del governo Lula si è chiuso con un bilancio in chiaroscuro. Il fronte per la democrazia brasiliana, composto dal Pt di Lula e dal Psdb di F. H. Cardoso, i due grandi partiti storici della transizione dalla dittatura alla democrazia negli anni Ottanta, ha retto agli attacchi eversivi del bolsonarismo, gli indicatori economici hanno mostrato segnali di crescita del Pil.
Anche sul piano della politica estera, Lula ha rivisitato alcuni dei capisaldi della politica latinoamericana, ribadendo in più di una circostanza il «non allineamento» dei paesi sudamericani, oltre che l’uso della categoria di genocidio per stigmatizzare il massacro in atto in Palestina da parte di Israele, nel solco di una solidarietà «postcoloniale» tra popoli colonizzati e oppressi (l’America Latina nasce anche su dei genocidi).
Ora tuttavia si tratta di avviare il programma di riforme promesso in campagna elettorale. Siamo a metà del secondo anno di governo. È una congiuntura delicata, anche perché a ottobre ci saranno le elezioni municipali ed è noto che coloro che vincono le elezioni locali (governatore o sindaco) di alcuni stati chiave come San Paolo, la «locomotiva» produttiva del Sud America, sono seriamente candidati alle presidenziali.
Si tratta di una prova importante per il governo Lula, per fare un bilancio del primo biennio di governo, in vista delle elezioni presidenziali del 2026, oltre che per pensare eventuali rimpasti nel governo. È un punto centrale. Garantire la governabilità del Brasile passa per un allargamento della base politico-parlamentare anche a settori moderato-conservatori (pensiamo agli evangelici) contigui alla destra.
Si intende occupare il «centro» per evitare possibili estremismi, anche osservando la crescita della estrema destra in Europa e in attesa del risultato elettorale degli USA, che come è noto influenza profondamente le onde progressiste o di destra in America Latina. La destra brasiliana, di cui il «bolsonarismo» resta un segmento significativo, è forte e può giovarsi dei risultati delle destre europee e di una vittoria di Trump negli USA.

Ma l’allargamento a destra può minare il processo riformatore intrapreso da Lula (la riforma tributaria in primis). Inoltre, gli alleati di centro, sostenuti soprattutto dalla borghesia imprenditoriale, chiedono al governo Lula misure neoliberali di tagli alla spesa pubblica.
Insomma, sfide cruciali per il governo, alle prese con il difficile equilibro tra il far quadrare i conti pubblici e rilanciare l’economia anche aumentando i salari e investendo sul sociale. Proprio su questo punto Lula ha detto parole condivisibili di recente «è compito dello Stato non solo promuovere lo sviluppo, ma anche occuparsi della persona umana». Staremo a vedere.
Fabio Gentile - Docente di Scienze Politiche, Università federale del Cearà, Fortaleza (Brasile)
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