Speleologa intrappolata e hater, il vero abisso è dentro di noi
Lo stupore (malauguratamente) non finisce mai. Ed è bene che sia così, in definitiva. La drammatica vicenda e l’odissea che hanno coinvolto Ottavia Piana, ferita e rimasta intrappolata a quasi 600 metri di profondità nell’Abisso Bueno Fonteno, dovrebbero muovere un’ondata di solidarietà. E, invece, a conferma che nella società delle piattaforme «pietà l’è morta» e la compassione è divenuta «questa sconosciuta», il sentiment che dilaga in rete gronda fastidio, antipatia e denigrazione nei confronti della speleologa ritrovatasi in grave difficoltà.
All’insegna di un repertorio che ripropone i soliti commenti da hate speech e incivility, e arriva a battere i tasti sul costo per la collettività delle operazioni di recupero e salvataggio. A infilarsi in questa discutibile diatriba sono pure talune figure pubbliche che, pur con toni civili a differenza dei troppi haters online, rimarcano il fatto che la scienziata avrebbe mancato di buon senso, e si sarebbe infilata di nuovo nel tunnel – in senso metaforico e, purtroppo, anche reale – nonostante una precedente sfortunata esperienza che le avrebbe dovuto «consigliare maggiore prudenza».
E, in tal modo, finiscono per allinearsi (non si sa quanto consapevolmente o meno) a rumors, fake news e boatos sempre da ricondurre a quell’odio viscerale e di pancia che costituisce uno dei combustibili per eccellenza che fanno muovere i social network.
Un infortunio sul lavoro
E dire, invece, come il vicepresidente nazionale del Soccorso alpino e speleologico Mauro Guiducci ha dichiarato proprio a Teletutto e al Giornale di Brescia, che la conoscenza dei percorsi sotterranei delle acque e delle riserve esistenti costituisce uno strumento indispensabile di fronte alla crisi idrica.
Ed è precisamente la mappatura che stava operando nella sua missione fra le grotte la dottoressa Piana, la quale dunque non era «in vacanza», ma in attività e in servizio, tanto che quello che le è occorso rappresenta l’equivalente di un brutto infortunio sul lavoro; un tema riguardo al quale, se avvenuto ad altre persone, ci viene da pensare – o anche solamente da sperare – che i soloni della tastiera non si esprimerebbero con i toni di queste ore.
Cervelli marci
Brain rot – traducibile come «putrefazione (o marcescenza) del cervello» – è la parola dell’anno scelta dall’Oxford Dictionary per illustrare gli effetti dei contenuti digitali sui comportamenti e le facoltà cognitive di alcune fasce di utenti internettiani. Questo «ciarpame web» identifica un motore considerevole dell’odio che si riversa sulle piattaforme, a sua volta un fenomeno composito nel quale confluiscono aspetti diversi, ma coincidenti nel distruggere ogni empatia nei confronti dell’altro, e nel negargli quel «rispetto» che è stato invece selezionato come parola dell’anno 2024 dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.
L’abisso è dentro di noi
I leoni da tastiera sono tantissimi, ahinoi, e spesso si nascondono dietro l’anonimato dei nickname, oppure adottano false denominazioni. E ora l’ingente (come giusto) dispiegamento di soccorsi per cercare di salvare Ottavia Piana è diventato, agli occhi di questi pseudo-opinionisti da bar sport internettiano pronti a pontificare su tutto sapendo ben poco (o, per meglio dire, nulla), l’ultima pietra dello scandalo su cui esercitarsi. Avevano certamente buone ragioni gli studiosi della Scuola di Toronto nell’affermare che la «struttura» del sistema dei media risulta decisiva nel determinare la «sovrastruttura» del modo di pensare degli individui. Ma qui, una volta di più, bisognerebbe avere il coraggio di guardare dentro l’abisso nero: non di Bueno Fonteno, ma dei troppi webeti in circolazione.
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