Europa, la spesa militare è il prezzo della pace

Occorre superare la frammentarietà e coordinare gli sforzi, dando vita a un’unica politica industriale
Un'esercitazione delle forze Nato in Romania - Foto Epa/Robert Ghement © www.giornaledibrescia.it
Un'esercitazione delle forze Nato in Romania - Foto Epa/Robert Ghement © www.giornaledibrescia.it
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Questo tema può provocare «pruriti» a chi finora ha vissuto in pace pensando che il pranzo fosse gratis. Ma, come diceva il premio Nobel Milton Friedman, non esistono pasti gratis. E il prezzo, in tal caso, è significativo. La difesa è un bene pubblico da cui tutti traggono vantaggio. Stando agli obiettivi concordati nel patto atlantico, i membri della Nato devono investire il 2% del Prodotto interno lordo nella difesa (di cui lo 0,4% in equipaggiamento). Inutile dire che alcuni paesi – in particolare gli Stati baltici – hanno investito più della soglia: essendo vicini all’«orso russo» e avendone subìto le conseguenze, questi paesi sono determinati a difendere fino in fondo la propria libertà.

Al contrario, l’Italia ha investito meno del 2%. Di fatto, ci comportiamo come i condomini del primo piano che non vogliono l’ascensore: gli italiani pensano, infatti, di essere lontani dalle «zampate» russe e, pertanto, sono restii a spendere. Tuttavia, basta un piccolo problema di deambulazione che anche il condomino del primo piano si convince, talvolta troppo tardi, dell’utilità dell’ascensore. Analogamente, negli ultimi due anni, abbiamo preso coscienza di quanto la pace non sia necessariamente eterna.

Inoltre, con il rischio che il supporto statunitense venga meno, l’Europa deve provvedere a se stessa. Tuttavia, come sottolineato da Mario Draghi nel suo discorso all’Europarlamento, la spesa militare europea è frammentaria. Un esempio per tutti: l’Italia ha inviato all’Ucraina parte dei propri missili terra-aria Stinger (di produzione statunitense) e ha tentato di acquistarne altri. Purtroppo, gli Usa non sono più disponibili a vendere e, così, ci dobbiamo arrangiare. Il ministero della Difesa ha dunque commissionato ad alcune società italiane la produzione di uno strumento alternativo di difesa contraerea, ricadendo così nel circolo vizioso della frammentarietà. Se ciascun membro Ue utilizza armi prodotte spesso localmente, senza sfruttare pienamente le economie di scala, si ha un ingente spreco di risorse. Di qui la necessità di coordinare gli sforzi.

Si dirà: la cooperazione è quasi impossibile in un contesto in cui il veto di un solo paese può bloccare l’Ue. In realtà, il trattato di Nizza consente una cooperazione rafforzata tra almeno un terzo dei paesi membri. Se, dunque, le economie di maggiori dimensioni trovassero accordi di collaborazione sia nelle procedure di acquisto sia nella progettazione e realizzazione di strumenti di difesa, l’orso russo comincerebbe a essere meno temibile e, probabilmente, l’Europa (oggi estromessa dai negoziati di pace sull’Ucraina) riguadagnerebbe una statura internazionale.

Ricordiamoci che abbiamo le competenze e le risorse. Per avere un’idea, ricorriamo alla classificazione Nato delle spese militari. Ebbene, a fronte dei 18.590 miliardi di dollari di Prodotto Interno Lordo (Pil), l’Ue ha speso 319 miliardi (l’1,7%, a fronte del 3,3% degli Usa). Gli stanziamenti aggiuntivi annunciati dalla Germania (200 miliardi di euro) e, al di fuori dell’Ue, la decisione del Regno Unito di giungere in tempi stretti al 2,5% del Pil (circa 103 miliardi di dollari) mostrano una sorprendente determinazione degli europei.

Ma serve che vi sia un’unica politica industriale. Il caso di Piaggio è emblematico. La società turca Baykar (nota per la produzione di droni e per lo sviluppo di tecnologie aerospaziali) ha infatti siglato un accordo preliminare per l’acquisizione di Piaggio Aero Industries e Piaggio Aviation. Ove l’accordo si concretizzasse, pertanto, l’Europa (e non solo l’Italia) perderebbe importanti competenze. D’accordo: la Turchia è un paese Nato. Ma non si può certo dire che sia una democrazia.

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