L'architetto torna da Brescia a Leopoli: «Attendo di combattere»
In una Leopoli spaventata, ma allo stesso tempo piena di coraggio, voglia di fare e speranza, è tornato da un paio di settimane l’architetto ucraino Roman Oleg. Da Brescia, sua città da almeno vent’anni, è partito su un pulmino di aiuti umanitari quando i russi hanno iniziato a bombardare. Con sé solo uno zaino, giubbotti antiproiettile, scarponi e tanta determinazione a difendere, da militare, il Paese.
L'arrivo a Leopoli
Il viaggio è durato 18 ore, poi una lunga camminata al confine con la Polonia: «Sono rimasto sconvolto e addolorato dalle enormi folle di profughi - racconta -. Nei loro occhi ho visto la tristezza e la disperazione di chi, in un attimo, ha perso tutto. Non erano gli emigrati che, come ho fatto io, lasciano il Paese per motivi di lavoro. Erano persone strappate bruscamente dalle loro case. Persone svegliate dalle bombe, dai vetri rotti e dalle grida d’orrore. Persone partite senza nemmeno aver fatto i bagagli».
Arrivato a Leopoli grazie al passaggio offerto da un volontario, Roman è stato accolto da un amico dei tempi dell’Università, Yaroslav. Una delle prime cose che ha fatto è stato recarsi al commissariato militare per registrarsi: «C’era una coda lunghissima, ho atteso sette ore prima di entrare nell’ufficio. Qui ho capito che non siamo messi male: ci sono persone in abbondanza disposte a combattere, basta solo che ci siano le armi per tutti. Siccome sono un tenente della riserva, reparto tipografico, mi hanno fatto passare velocemente. Ho dovuto fare un esame medico per via di problemi alle articolazioni legati a traumi sportivi. La mia posizione resta da definire. Nel frattempo mi sto dando da fare come volontario e faccio la guardia ai check point dei centri abitati».
Città sconvolta
La Leopoli in cui si trova ora non è la città degli incontri romantici, delle performance artistiche e delle chiacchiere al bar che Roman ricordava: «Vicino alla stazione - racconta - c’è la tendopoli in cui i profughi vengo assistiti e smistati verso i Paesi in cui troveranno accoglienza. I vetri delle chiese sono protetti dalle bombe con dei pannelli. I monumenti sono stati impacchettati. Per strada ci sono le guardie della difesa territoriale con le mitragliatrici, i giornalisti, i volontari. Nella Polveriera, sede dell’Unione degli architetti, si fabbricano maglie mimetiche e si raccolgono aiuti. La gente prova, per quanto possibile, a fare una vita normale, a lavorare. Poi irrompono le sirene e tutti cercano un riparo».
Nel suo cuore giallo e azzurro c’è paura, ma soprattutto speranza: «Dopo mesi di ansia, attesa della guerra, choc, incredulità, insonnia e voglia di correre a fare qualcosa - confessa - ora ho la fiducia risoluta che ce la faremo. Ringrazio gli italiani e tutte le persone oneste che ci stanno aiutando. Dopo la vittoria, spero vicina, ci sarà da lavorare tantissimo. Ma tutti insieme ce la faremo».
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