Dal bosolà al fatulì: nel Bresciano paese che vai De.co che trovi
Rovato tiene stretta l’antica ricetta del manzo all’olio. A Passirano, nelle cucine dell’oratorio, si sente friggere il chisulì. E nelle case di Ponte di legno il Silter viene impastato con le erbe di malga dette perùch per portare in tavola gli gnoc de la cua ovviamente spolverati di formaggio invecchiato delle Case di Viso. Nel Bresciano paese che vai, piatto De.co che trovi (guarda la mappa): sono 29 i Comuni che hanno legato il proprio nome a un prodotto della tradizione gastronomica locale, per un totale di 51 tipicità.
Le Denominazioni comunali nascono da un’idea dell’enogastronomo Luigi Veronelli: l’intento era quello di tramandare e valorizzare gusti, riti e saperi che non avrebbero potuto ambire ai marchi di tipicità Dop, Igp e Stg conferiti dall’Unione europea. Purtroppo, però, attualmente non esiste un elenco ufficiale delle De.co del Belpaese. Noi, a fianco di questo articolo, abbiamo provato a realizzare la mappa delle Denominazioni comunali bresciane. Alcune (38) compaiono in grigio, altre (13) in arancione. Perché per ottenere la De.co i nostri Comuni hanno imboccato due strade. Nella gran parte dei casi è stata l’Amministrazione stessa (attraverso Consiglio e Giunta) ad assegnare questa certificazione a un prodotto agricolo tipico o a una ricetta. Ma volendo avrebbe potuto farlo anche per un prodotto dell’artigianato (si pensi ai fischietti di Rutigliano, in Puglia), una festa o un sapere. Servono: un regolamento (approvato dal Consiglio); un albo comunale delle iniziative riguardanti le attività e le produzioni agroalimentari meritevoli di rilevanza pubblica; un registro nel quale vengano iscritti i prodotti segnalati che abbiano ottenuto la Denominazione. E un disciplinare di produzione relativo ad ogni De.co.
Il primo Comune in Italia ad aver assegnato una De.co (alla farina di mais antico macinato a pietra, oggi rara) è stato, nel 2002, Castegnato. Bosolà e caicc. Ad oggi le specialità bresciane certificate dai Comuni sono tante. Si va dal farro di una terra anticamente chiamata «pagus farraticanus» (l’attuale San Paolo) ai dolci di Borno: il chisol, una prelibatezza invernale con forma tondeggiante e a base di strutto, e il bosolà, una sorta di ciambella pasquale che viene cotta prima in acqua bollente e poi in forno. Nella lista ci sono poi prelibatezze come i salami di Alfianello e Pozzolengo, i malfatti con erbette e spinaci di Carpenedolo; la torta di rose di Calvisano, un vanto per la comunità di Malpaga; il dolce di Sant’Imerio ideato dalla pasticceria Andreoletti per il patrono di Offlaga. E le tre specialità di Breno: i caicc (ravioli con erbe, salame, bollito, mortadella, arrosto di maiale, formaggio, noci e amaretti), la dolce spongada (anticamente offerta ai malati e ai poveri in segno di augurio nel periodo di Pasqua) e la storica salsiccia di castrato.
Manzo e tinca. L’altra strada per ottenere la De.co passa dalla Camera di Commercio e dal Ministero dello Sviluppo economico. Secondo Riccardo Lagorio, bresciano alla guida dell’Associazione nazionale dei Comuni che hanno ottenuto la De.co, si tratta dell’unica via corretta: «La delibera del Consiglio non basta: le De.co - sostiene - sono un marchio che in quanto tale deve essere rilasciato da enti competenti esterni al Comune. Chi non ha seguito questo iter millanta di avere qualcosa che non ha. Nel Bresciano, infatti, sono soltanto una decina i Comuni che possono vantare il marchio: Barbariga con casoncelli e bariloca, Quinzano con miele di tiglio e salame cotto (realizzato con la carne dei suini dal pelo nero allevati in zona), Passirano col chisulì, Rovato col manzo all’olio, Iseo con la tinca al forno di Clusane, Marone con la soppressa al cui interno compare anche la lingua, Ponte di Legno con gli gnoc de la cua e il formaggio invecchiato delle Case di Viso, Gussago e Serle con lo spiedo.
Tutti prodotti che hanno i requisiti della De.co: mi riferisco alla storicità del prodotto e alla sua diffusione sul territorio». Da un lato quindi c’è chi, come Lagorio, intende le De.co come dei marchi. Dall’altro c’è chi, come il sito Casa Veronelli, la pensa all’opposto: «Le De.Co non sono un marchio, tantomeno di qualità, bensì una certificazione d’origine semplice, ottenibile da una delibera che non richiede iter burocratici complessi né disciplinari di produzione, ma solo l’atto di responsabilità di un sindaco e della sua Giunta di garantire la provenienza del prodotto dalla propria terra e di attribuirne incontestabilmente l’identità». La discussione, ad ogni modo, è aperta.
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