Léveillé: «Concentrazione e organizzazione le parole d’ordine»
Concentrazione e organizzazione: sta forse in questi due termini la lezione più evidente che emerge dalla nostra incursione tra i fornelli del «Miramonti l’Altro» di Concesio, un «dietro le quinte» nel pieno di uno dei servizi concitati di queste giornate pre-natalizie con la voglia di raccontare una cucina da una prospettiva meno usuale. E magari utile per gli appassionati gourmet che mandano le loro ricette a Chef per una notte, di cui è giudice fin dalla prima edizione, al portale gusto.giornaledibrescia.it.
Concentrazione. Perché questa è la parola che Philippe Léveillé - chef bretone da poco meno di trent’anni alla guida del ristorante più premiato della nostra provincia - ha usato per indicare l’attenzione e l’applicazione che chiede ogni giorno a se stesso e ai suoi collaboratori. «Raramente qualcosa mi preoccupa d’un servizio, neppure del più complesso - dice il cuoco - tranne mantenere sempre alta la concentrazione del mio team. Non esiste che magari pensiamo: "bon, oggi ci sono solo 20 persone a tavola e ieri sera ne abbiamo servite 70, quindi possiamo rilassarci". Non esiste perché è proprio lì, in quell’accenno di rilassatezza, che si nasconde il rischio di non dare il meglio all’ospite».
Concentrati per tantissime ore. Ma è possibile? «Intendiamoci - risponde Philippe - qui lavorano persone che amano questo mestiere; se non fosse così se ne sarebbero già andate. C’è sempre tempo per scherzare ma ci sono momenti, come il servizio, nei quali ognuno deve sapere cosa sta facendo e farlo al meglio. Di più: deve concentrarsi sul suo piatto e allo stesso tempo dialogare con gli altri, con lo chef al "pass", con la sala. Faccio un esempio: spesso a un tavolo c’è un ospite che ha ordinato un risotto, un altro ha chiesto il piccione e un terzo magari un’anguilla (che cuociamo in un forno speciale a carbone da 600 °C). E i tre piatti vanno serviti insieme. Ebbene, se non fossero pienamente coinvolti i ragazzi della sala, sarebbe impossibile coordinare le preparazioni che hanno tempi diversi e dare un servizio ottimale».
Ed è davvero uno spettacolo vedere Philippe al "pass" che "fa marciare" la sua cucina: come un regista chiama i piatti alla sua squadra senza alzare la voce, con poche parole; con un cenno e un colpo d’occhio s’intende con tutto lo staff (9 donne e 3 ragazzi) a cominciare dalla sous-chef Arianna e da Martina, che sono con lui da molti anni. «Siamo una bella squadra e lavoriamo duro - aggiunge Philippe -. Oggi che è martedì, giorno di riapertura e in vista delle feste, cinque di noi, hanno cominciato alle 7 stamattina, portando in cucina le materie prime della settimana (almeno 120 colli diversi) e avviando le preparazioni preliminari per il sottovuoto e lo stoccaggio. Purtroppo o per fortuna qui si deve lavorare e parecchio». Ma c'è chi parla poeticamente di voi come di artisti della tavola… «Rispetto tutti i pareri - replica lo chef - ma per me artista è termine fuorviante. Preferisco artigiano perché mi pare traduca meglio il nostro utilizzare le mani, prendere un prodotto fresco e cercare di portarlo in tavola al meglio». Una squadra di artigiani che si muove in un’azienda complessa… «Sì, e l’organizzazione è un altro elemento indispensabile - prosegue Philippe -. Attenzione: l’organizzazione è necessaria ad ogni livello, anche nella cucina di casa, ma in un ristorante come questo è fondamentale. Il "Miramonti l’altro" non sarebbe questo se non ci fossero figure diverse con responsabilità precise, un’azienda familiare dove ognuno ha un ruolo decisivo, dalla cucina alla sala, alla cantina, al catering, persino alla lavanderia. C’è per esempio mia moglie Daniela in sala; c’è mio cognato Mauro Piscini che gestisce e aggiorna con puntualità ogni mattina una cantina di quasi mille etichette. C’è suo figlio Stefano che è il manager del nostro catering, ovvero dei servizi che facciamo ovunque anche all’estero, occupandosi di ogni cosa, dalle offerte all’approvvigionamento, alla logistica, al personale. Non ho dubbi: senza un’organizzazione efficiente non si può fare cucina, men che meno cucina di qualità».
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