Il portento del cambiamento

Clementina Coppini
Le mura di Bergamo rappresentano la resilienza della Repubblica di Venezia dopo la sconfitta di Agnadello; il Lucone è stato costruito sopra i resti del primo villaggio: l’evoluzione è la chiave del progresso
Porta San Giacomo con il leone di San Marco: uno degli accessi a Bergamo Alta
Porta San Giacomo con il leone di San Marco: uno degli accessi a Bergamo Alta
AA

Le Mura di Bergamo sono poderose, portentose, splendenti di magnificenza. L'idea di costruirle è la diretta conseguenza delle Guerre d'Italia, quando Carlo VIII scende e cerca di conquistare tutto. La Lega di Cambrai, creata contro Venezia da Spagna, Francia e Stato Pontificio, come già sappiamo infligge nel 1509 ad Agnadello una pesantissima sconfitta alla Serenissima, che, ridotta ai minimi storici dei suoi territori di terra, sembra finita. Aggredita dall'esercito di Luigi XII con tutte le forze di cui disponeva, tra cui l'artiglieria, che mette in scacco le difese della Repubblica, del tutto inadeguate e impreparate.

Agnadello per Venezia è una Caporetto. Una sconfitta senza precedenti. Venezia è circondata, abbattuta, in pratica inoffensiva. Ormai la partita tra lei e le grandi potenze europee sembra chiusa. O almeno così pensano Francia, Spagna e Stato Pontificio. Invece, a dispetto di ogni previsione, la Serenissima si riorganizza. Non si rassegna a chiudere lì la sua storia di fasti e commerci. Inizia a pensare a come risollevarsi, poiché, malgrado ciò che è accaduto, non ha alcuna intenzione di lasciarsi sopraffare. Ha le possibilità economiche, ha le idee e la volontà di riprendersi ciò che le è stato tolto.

Così nel giro di vent'anni riconquista tutti i territori che le sono stati tolti. Un'impresa impensabile, eppure la Serenissima ci riesce. Organizza le cernite, ovvero la selezione e l'addestramento di contadini-fanti, creando un esercito di 20.000 uomini, dopo che ad Agnadello ne erano morti 15.000. Venivano pagati male, ma avevano corsaletto (erano fanti) picche e armi da fuoco portatili, le stesse con cui Luigi XII aveva distrutto l'esercito veneziano ad Agnadello. Fatto ciò, metro per metro riconquista tutti i domini di terra perduti.

La resilienza, dopo Agnadello

Nel frattempo si rende necessario trovare un modo per difendere le terre riconquistate. Bisognava trovare qualcosa che rispondesse alle bombardelle (una sorta di piccolo cannone), che tante vite erano costate, e dotarsi un sistema difensivo nuovo, in cui armi bianche e armi da fuoco potessero convivere ed essere utili in caso di attacco nemico. Ed ecco l'idea di costruire una serie di fortezze in grado di «difendere et offendere», ovvero di reggere l'attacco di armi bianche e armi da fuoco e di essere in grado di rispondere a dovere. Agnadello non doveva più ripetersi.

Nasce così la fortezza alla moderna: una struttura difensiva non più medioevale, con mura diritte e torri, ma qualcosa di nuovo, una fortezza con baluardi e mura inclinate, su cui i proiettili non facciano breccia, ma scivolino giù. In realtà, più che l’inclinazione delle mura, è il fatto che siano «piene» di terra a scongiurare la potenza dei tiri d’artiglieria nemici. L’inclinazione della cosiddetta «scarpa» facilitava il terrapieno e dava minore presa ai proiettili.

Tale struttura ha recepito la balistica, inventata dal genio matematico del bresciano Tartaglia, che a dodici anni era stato ridotto in fin di vita dai soldati francesi durante il sacco di Brescia nel Duomo dove si era rifugiato, ma era sopravvissuto (il suo vero nome era Niccolò Fontana, ma era soprannominato Tartaglia per i difetti di pronuncia dovuti alle ferite al volto mal rimarginate).

Venezia non è la prima potenza ad adottare tale genere di sistema difensivo, anzi arriva in ritardo a recepire le novità delle fortezze alla moderna rispetto ad altre aree della penisola italiana. Ma lo fa con intelligenza, questo sì. I veneziani si creano una notevole scorta di armi, fabbricate nella bergamasca Gromo e in provincia di Brescia, e costruiscono una rete di bastioni, ognuno dei quali difende il proprio vicino. Bergamo difende Crema, Crema Pontevico, Pontevico Orzinuovi, Orzinuovi Brescia. E a seguire Peschiera, Verona, Vicenza, Padova. Fortezze con mura basse, spigolose, e puntute. Inattaccabili. Sono le fortezze alla moderna, invenzione tutta italiana che come sappiamo sarà copiata all'estero. E dove la natura difetta Venezia fortifica ancora di più.

Il progetto di difesa

Il concetto che sta alla base di questo enorme impegno costruttivo è la visione delle terre della Serenissima come un corpo, le cui membra sono le fortezze, create per proteggere la testa (e l'anima) di questa struttura diffusa: Venezia. Questo corpo, metaforico e fisico, è la chiave per dare senso alle opere volute dalla Serenissima, per far capire a tutti che lei esiste e non ha alcuna intenzione di capitolare. Da tale ragionamento nasce la più strepitosa opera difensiva voluta dai veneziani, le mura di Bergamo, stratosferico esempio di fortezza di monte.

Da molti ingegneri Bergamo è ritenuta, per la sua struttura geomorfologica, infortificabile e quindi indifendibile. Intanto che si chiedono come procedere, mentre pensano alle mura che andrebbero costruite, a dove costruirle e a quanto potrebbe venire a costare l'impresa, ecco che arriva Sforza Pallavicino con la sua idea di fare le mura non tutto intorno alla città, ma concentrandosi nella parte alta. In apparenza sembrava una follia, ma le Muraine, ovvero le fortificazioni medioevali intorno a Bergamo Bassa (ora in pratica del tutto scomparse) non avevano funzionato di fronte alle incursioni del nemico. Serviva qualcosa di più per difendere la testa (Venezia) e, come dicevano i veneziani, ogni buon medico se vuole salvare il corpo deve sacrificare un arto.

Sforza Pallavicino convince Venezia della validità del suo progetto, che prevede di sacrificare tutti gli arti di Bergamo e di blindare solo la testa, la cima del colle, e del fatto che non si costruiscono baluardi quando ormai si è in guerra, perché è troppo tardi, bensì in pace, quando c'è tempo per organizzare le proprie difese. Si fortifica per prepararsi a una serena reciprocità, a una neutralità armata. Ed è esattamente ciò che si verificherà, poiché nessun colpo verrà sparato contro quelle mura. Nessuno mai.

Pallavicino arriva a Bergamo e organizza una filiera, che utilizza il capitale umano: muratori, soldati, portatori di pietre. Quando i lavori cominciano serve prima di tutto abbattere. Ed ecco il guasto, la distruzione, il dolore di chi vedeva le proprie case, chiese, botteghe distrutte in vista di qualcosa di cui non capivano l'esigenza, che non sapevano nemmeno sarebbe acceduto e per la cui distruzione non sono stati risarciti. Pensate al contadino che guardava la sua cascina demolita, il prete la chiesa abbattuta, il monaco il chiostro raso al suolo, l'artigiano la sua officina piallata.

Bergamo Mura Veneziane, il baluardo di S. Agostino
Bergamo Mura Veneziane, il baluardo di S. Agostino

Purtroppo il progetto prevedeva come prima cosa di spianare la zona in cui doveva sorgere la fortezza, azione che veniva fatta con il rastrello, strumento fondamentale in tale operazione poiché serve a separare la terra dai sassi. Seguirono le complesse operazioni di riempimento del terrapieno della fortezza, che fu completata con un rivestimento di pietre. I lavori iniziano nel 1561 e in pochi mesi vengono aperti nove cantieri con quattromila persone impiegate.

Tutto procede speditamente, tant'è che entro la fine di quell'anno sono già stati tracciati e fondati i baluardi del Forte di San Marco, di San Lorenzo, San Giovanni, Sant'Alessandro, San Giacomo e la tenaglia di Sant'Agostino. Niente male, come inizio. Un'opera che coinvolge e stravolge e separa ancora oggi fisicamente le due parti della città, un'impresa epica in cui sono impegnati non solo i muratori, ma i molti portatori di pietre (tra cui figuravano anche molte donne), che viaggiavano avanti e indietro dalle cave portando ceste piene di sassi (e venivano pagati a seconda di quante riuscivano a trasportarne ogni giorno). E ovviamente la guarnigione di soldati veneziani, poiché i bergamaschi, per via del guasto, non erano molto favorevoli all'opera e non è difficile comprenderne i motivi.

I tre mesi come sappiamo diventeranno 27 anni e i preventivati 20.000 ducati diventeranno la cifra esorbitante di 525.000 ducati. Quando Sforza Pallavicino muore la direzione lavori passerà a Giulio Savorgnan, che erigerà il Baluardo della Fara.

I nomi di chi ha fatto la storia

Ma i lavori non si conclusero con l'inaugurazione, dopo la quale la porta di San Giacomo fu rifatta. Il dato è importante sia per la ricostruzione della porta in oggetto sia perché è stato ritrovato il cosiddetto «libro della porta di San Giacomo», un preciso resoconto con i nomi di tutte le persone che vi hanno lavorato come muratori e portatori di pietre (in questo caso si è potuto stabilire il preciso contributo femminile, poiché il 30% dei portatori erano donne), con le ore di lavoro e con la paga che ricevevano. Di tutti loro non resta che il nome: hanno fatto la storia delle mura senza scriverla.

Alla fine di questa lunghissima fatica uscirono più di cinque chilometri di baluardo difensivo, che abbracciava la città alta e lasciava fuori la città bassa, la quale, in caso di attacco nemico, sarebbe stata abbandonata alla devastazione. Dettagli irrilevanti, per chi viveva nella capitale lagunare. Un po' meno per gli abitanti dei borghi al piano. In compenso furono sistemate le Muraine, le mura della città bassa costruite in precedenza dai Visconti (e dal nome si capisce quanto sarebbero resistite all'aggressione di un esercito), giusto perché chi voleva superarle doveva versare un obolo.

Trent’anni di sacrifici

Le mura di Bergamo, costate quasi trent'anni di sacrifici di un'intera città, sono questo. Sono l'esempio dell'architettura che supera la natura, che diventa parte di essa, adattando in modo perfetto l'irregolarità con le esigenze militari. Le Mura Bastionate sono maiuscole, sono state messe lì, bene in vista, per far capire che da lì non si passava. Sembrano destinate a non cadere per nessuna ragione: da fuori ti sovrastano, da dentro ti fanno sentire protetto.

Le macerie del guasto sono parte delle mura, integrate e custodite in esse. Oggi vediamo sparuti soli tra una pietra liscia e l'altra: sono bassorilievi presenti sulle pietre di recupero di edifici abbattuti. Sebbene non sempre sia facilmente visibile, alla fine parte di ciò che è stato raso al suolo, come una pietra recante un astro splendente, è anch'esso diventato Patrimonio dell'Umanità.

Ma com'è fatta questa fortezza? All'esterno di pietre squadrate e levigate, ma dentro c'è la terra, a protezione dai colpi di cannone. La pietra è la pelle, la terra sono i muscoli. Come diceva Giovan Giacomo Leonardi: «L'uomo, il terreno, il muro fanno la fortificazione». Una guarnigione di soldati pattugliava costantemente le mura, dotate di armi, cannoni, polveriere.

Le mura, non potendo essere continue per motivi logistici e commerciali, erano dotate di porte. Quella di Sant'Agostino, all'interno della quale ora c'è il Museo delle Mura, era il passaggio più battuto. Oltre la porta, entrando, c'è una fontana tripartita. Una quinta scenografica per sottolineare l'importanza della porta rivolta verso la capitale. Entravi e sentivi l'acqua zampillare (ora la fontana, pur restando bella, è spenta). Acqua che, allora come oggi, era importante, soprattutto all'interno di una fortezza di monte in caso di assedio.

Le porte

Le porte sono progettate secondo la dialettica tipicamente veneziana del «munire et ornare», ovvero del difendersi, ma costruendo sempre strutture funzionali quanto esteticamente gradevoli. Erano pericolosissime, non tanto per i nemici bensì per coloro che stavano all'interno della fortezza, essendo esse le parti più vulnerabili in caso di attacco nemico. Per renderle più sicure erano state inserite tra bastioni, che erano posti in modalità tenaglia. Tenaglia è il termine tecnico che illustra la posizione frontale di due bastioni che difendono la cortina che li unisce. Ogni Porta aveva particolare bisogno di essere difesa. Nel caso della porta di Sant'Agostino è importante rilevare la presenza di più elementi architettonici di difesa posti in una sorta di «abbraccio di fuoco».

A vedersi erano belle, ma era difficile difenderle. La più esposta era la porta di Sant'Alessandro e per questo era protetta dal Forte di San Marco. Di giorno da queste porte passavano tutti. Dalla porta di Sant'Agostino arrivavano podestà e capitano (Il segreto del successo di Venezia, a Bergamo come in tutti i suoi territori, era mantenere ciò che c'era di buono e mettere controllori non esageratamente severi). Da questa e dalle altre porte passavano mercanti e chiunque esercitasse attività. Scenografica, come una strada regale che si solleva dal nulla, è la porta di San Lorenzo, importante accesso per i commerci con l'Europa attraverso i Grigioni.

Le porte chiudevano alle dieci di sera, le ventidue, con cento rintocchi del campanone della torre civica, terminati i quali chi era dentro era dentro e tutti gli altri fuori. Ancora oggi alle dieci di sera si sentono quei cento rintocchi. Perché la storia, se è pur vero che i cambiamenti a volte appaiono dal guizzo di un momento, è frutto di cambiamenti, ma anche di stratificazioni e tradizioni. Così, per quelle mura e per quei cento rintocchi, accadde che alcuni persero sicurezza in nome di una sicurezza più grande.

Il museo delle mura veneziane

Il museo delle mura veneziane è ospitato all'interno della porta Sant'Agostino - Foto da www.visitbergamo.net
Il museo delle mura veneziane è ospitato all'interno della porta Sant'Agostino - Foto da www.visitbergamo.net

Tutto ciò è raccontato nel Museo delle Mura Veneziane di Bergamo. Un unicum nel suo genere, essendo inserito all'interno della porta di Sant'Agostino, una parte delle mura stesse. È un museo che parla la lingua del suo contenuto. Recupera la sua vocazione, valorizza l'architettura della porta in sé e insieme spiega il significato profondo delle mura, il loro valore geopolitico e, infine, la loro bellezza, vista dall'interno. È un'esperienza immersiva nel vero senso del termine: entri dentro le mura, dentro l'idea che le ha ispirate e nella mente dei progettisti. Incredibile la Pianta di Alvise Cima, un dipinto olio su tela realizzato nel 1693 che descrive con precisione la Bergamo prima delle Mura e indica chiaramente, con un evidente segno nero, il tracciato della fortezza, che corrisponde al guasto, con tanto di dettagliato elenco in fondo a sinistra degli edifici abbattuti e in fondo a destra di ciò che li avrebbe sostituiti.

È la «Descritione della nobilissima et antichissima città di Bergamo avanti fosse fortificata», come una mappa di Bedolina. Una riga nera può prendere vita, come Venezia ha dimostrato ai bergamaschi. L'idea di essere dentro quelle mura così sofferte, leggere i numeri delle spese, dei lavoranti, dei soldati, del materiale impiegato per costruzione e per difesa, vedere la mappa e comprendere come quello che per una città intera fu un'epopea possa essere descritto con una innocua linea dà molto da pensare. Il video su tre pareti che conclude l'esposizione, e che racconta la storia di quei 27 anni, è uno di quei felici casi in cui la multimedialità non solo ti fa entrare nel passato, cosa possibile, ma, esperienza rara, nel cuore di chi, mezzo millennio fa, quel cantiere l'ha vissuto. I video nei musei possono coinvolgere lo spettatore, ma raramente lo commuovono. Questo, forse perché viene proiettato sui «muri che sono costati tanta fatica», invece sì.

Stratificare per proteggere e proteggersi

Scavi archeologici del sito del lago Lucone
Scavi archeologici del sito del lago Lucone

Certamente i palafitticoli si ritenevano al sicuro nelle loro case sospese sull'acqua, almeno fino al giorno in cui scoppiò il disastroso incendio che le distrusse. E, come i resti degli edifici precedenti sono stati inclusi, sotto forma di materiale di riempimento, nella fortezza, così il nuovo villaggio palafitticolo del Lucone venne costruito sopra quello vecchio, di cui in questo caso rappresenta una continuazione, mentre nel caso delle mura la destinazione d'uso cambiò radicalmente.

La stratificazione è una delle principali chiavi di lettura del villaggio del Lucone, che non solo nasce su un villaggio precedente incendiato, ma in più viene scavato a strati. Le incisioni rupestri sono una stratificazione millenaria di graffiti, fatti da persone diverse in anni, secoli e millenni diversi (quando arrivò la ferrovia, nel 1909, qualcuno decise di incidere un treno).

Aggiungevano, puntualizzavano, sovrapponevano: ciò è avvenuto in moltissime città, che si stratificano in varie epoche, è avvenuto a Santa Giulia. Il riempimento, l'aggiunta, la sovrapposizione sono un tratto distintivo non solo di mura, incisioni e palafitte, ma anche del Capitolium Romano di Brescia, che ha sotto di sé templi più antichi, dedicati a divinità locali, più o meno identificabili. Scavando ulteriormente si potrebbero trovare edifici sacri antecedenti. Il monastero di Santa Giulia mostra forse meglio di tutti gli altri siti le stratificazioni temporali. I muri, i chiostri, le colonne, ogni parte della struttura, dalla Domus dell'Ortaglia ai dipinti del Ferramola al chiostro rinascimentale, sono l'immagine visibile di una struttura che si evolve, cresce e si modifica anche concettualmente, passando da monastero a museo, mantenendo all'interno delle proprie mura la sacralità pur non rinunciando al proprio ruolo di monumento storico e contenitore di storia.

Antica Roma. Il Capitolium e il parco archeologico sempre molto apprezzati
 Grande pittura. Alla Pinacoteca Tosio Martinengo
 Museo Santa Giulia. Moltissime persone tra le affascinanti sale 
 Immagini. Al Museo nazionale della fotografia
Antica Roma. Il Capitolium e il parco archeologico sempre molto apprezzati Grande pittura. Alla Pinacoteca Tosio Martinengo Museo Santa Giulia. Moltissime persone tra le affascinanti sale Immagini. Al Museo nazionale della fotografia

A proposito di contenitore e dei materiali di cui può essere fatto, per il Capitolium fu scelta una pietra locale, il marmo di Botticino, «un calcare semicristallino compatto e a grana molto fine, estratto in provincia di Brescia nelle cave di Botticino, Nuvolento, Nuvolera, Rezzato e Serle», cittadine appena fuori Brescia le cui montagne recano ben chiari i segni di quanto fosse (ed è) apprezzato per la sua resistenza e per il suo delicato colore beige.

Il botticino è il colore di Brescia, unisce gli edifici delle varie epoche della città in un'unica nota di bianco caldo e avvolgente, dal Tempio Capitolino, al Duomo Nuovo, dal Cimitero Vantiniano a Santa Maria delle Grazie. Il basamento della torre del Broletto, Palazzo della Loggia, Piazza Vittoria e anche il Tribunale sono di marmo botticino. E ovviamente anche la facciata della chiesa di Santa Giulia, l'ultimo pezzo di un millenario capolavoro. Questo marmo dal Capitolium ne ha fatta di strada: è arrivato alla Scala di Milano, all'Altare della Patria di Roma, Al Palazzo delle Nazioni di Ginevra, alla Casa Bianca (è anche il basamento della Statua della Libertà). Gli abitanti dell'antica Brixia ci vedevano talmente lontano da arrivare fin oltre l'oceano.

Il Villaggio Crespi, pur essendo tra tutti i cinque siti il più simile a com'era in origine (è anche il più recente), non è esattamente com'era nell'Ottocento. È ancora abitato da privati, ma che non lavorano nella fabbrica, oggi chiusa, e sotto l'antica centrale idroelettrica, con i pavimenti in parquet e il quadro comandi che sembra uscito dal Nautilus del Capitano Nemo, è stata costruita una centrale ultramoderna. Non si vede, ma c'è e funziona. Il dopolavoro è un ristorante in piena attività, la scuola è un museo.

E questo cambiare di volumi, geometrie, destinazioni d'uso, aspetto, decorazione, il solo rinnovamento degli allestimenti e l'organizzazione di mostre rendono vivo ciò che tale deve restare nella mente nostra e soprattutto di chi verrà: questo è il messaggio.

Non è detto che tutto sia stato in origine pensato e voluto avendo come priorità il futuro, ma è evidente come fosse ritenuto importante fare cose belle, vasi aggraziati, case ben fatte, bastioni perfetti con porte ornate con gusto. Non possiamo essere certi che tutti loro fossero consapevoli di essere parte di qualcosa di unico, che ogni operaio o muratore o tessitrice o agricoltore o ceramista o incisore su pietra fossero entusiasti ogni mattina di andare a lavorare e avessero in mente gente stupefatta che ammira il risultato della loro fatica. Questo no. Ma se uno, mentre fa un vaso, aggiunge anche una singola decorazione, non può in quel momento non stare provando a guardare oltre, a sperimentare qualcosa di nuovo. Un altro magari farà un altro vaso e metterà due decorazioni e così via. Non è questo un modo di pensare al futuro?

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Condividi l'articolo

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato

Icona Newsletter

@Buongiorno Brescia

La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.