La scoperta dell’antico e insospettato quotidiano

Clementina Coppini
Vasi, incisioni, desiderio di riscoperta e rinascita: cosa ci svelano i siti archeologici e cosa portiamo avanti nei tempi recenti
Una delle magnifiche rocce con le incisioni rupestri
Una delle magnifiche rocce con le incisioni rupestri
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Avete presente quando una cosa all'inizio funziona bene e poi capita qualcosa che cambia la situazione? Un incendio, una sconfitta, la fine di un impero, invasioni, il verde che copre la roccia, la moda che cambia, la guerra, la fame. Cose che capitano, per quella ineluttabile commistione che esiste tra persone e luoghi.

La dendrocronologia al Lucone

Il villaggio del Lucone, nato nel 2034 a.C., era operoso e pieno di vita finché un incendio lo distrusse. Si è potuto datare il villaggio in modo così preciso per merito della dendrocronologia, una scienza che è anche una grande magia. La dendrocronologia è la scienza che, attraverso lo studio degli anelli di accrescimento di uno specifico albero, in questo caso la quercia, riesce a stabilirne l'età esatta, cioè il momento in cui l'albero è stato tagliato per essere utilizzato per la costruzione di qualcosa. Guardacaso i pali delle palafitte sono in quercia, legno resistente e dal tronco diritto e regolare, quindi adatto allo scopo. Ecco perché si è potuto stabilire che il Lucone di Polpenazze è stato costruito nel 2034 a.C., perché i pali sono stati tagliati esattamente (esattamente non per modo di dire) in quell'anno.

Come si fa a stabilirlo? Con la dendrocronologia, sistema di datazione basato sul conteggio degli anelli dei tronchi degli alberi (ogni anno il tronco si accresce di un nuovo anello), in specifico della quercia (il primo a fare osservazioni sull'argomento fu Leonardo da Vinci). Si taglia una porzione di palo, la si mantiene umida fino all'arrivo in laboratorio, dove il palo viene affettato per traverso fino a diventare di spessore infinitesimale e poi si iniziano a contare gli anelli, dal primo all'ultimo. Negli anni troppo freddi o troppo caldi gli anelli sono piccoli, in quelli piovosi sono più grandi. La quercia ha il vantaggio di avere un tronco dritto e regolare e di avere anelli ben leggibili. È anche molto resistente e longeva, ecco perché veniva usata per fare le palafitte.

Il bello della dendrocronologia è che, basandosi su una scala di accrescimento determinata (creata dai tedeschi, arriva fino a circa cinquemila anni fa, mentre la dendrocronologia americana, che si fonda sullo studio delle sequoie, si spinge fino a ottomila anni fa) e sempre uguale in tutte le querce esistenti, consente di datare l'albero all'anno preciso in cui è stato tagliato. Sembra incredibile, ma è così.

Vicino al tronco di una palafitta, nel fango, la porta e le assi di legno - Foto Gabriele Strada Neg © www.giornaledibrescia.it
Vicino al tronco di una palafitta, nel fango, la porta e le assi di legno - Foto Gabriele Strada Neg © www.giornaledibrescia.it

Inoltre, in associazione con il Carbonio 14, consente datazioni estremamente precise (non all'anno, ma all'interno di una forchetta di pochi anni) di materiali biologici trovati nella stratigrafia. Se per esempio ci sono dei semi in un vaso e si datano i semi si può datare anche il vaso. La ceramica ha tutta una serie di tipologie, collegate al popolo che le ha fatte, al periodo, alla moda del momento. Si può quindi capire a che periodo appartiene un vaso dalle sue caratteristiche. La dendrocronologia può fornire prove ulteriori della validità dell'interpretazione oppure suggerire cambiamenti all'interno delle tipologie.

Lo studio dei pali del Lucone ha consentito, in questo caso in combinazione con il Carbonio 14, di datare alcune parti delle fondamenta di Venezia. Non è forse Venezia la palafitta più grande, bella e di successo esistente? La sua antenata, sconosciuta al mondo se non per le leggende che ne parlavano come di un luogo di perdizione (peraltro la stessa Venezia per molti aveva la medesima fama), per secoli fece parte dei territori della Serenissima, è tornata alla luce per aiutare Venezia a conoscersi meglio, e forse per darle una mano a restare in piedi.

Il museo archeologico della valle Sabbia

L’Ursus spelaeus al Mavs
L’Ursus spelaeus al Mavs

Il Mavs, Museo Archeologico della Valle Sabbia di Gavardo ospita i reperti unici trovati in questo sito. Si trova in un edificio quattrocentesco in cui risiedeva la comunità di sacerdoti legati all'antica Pieve (già in costruzione nel Trecento) dei Santi Filippo e Giacomo, protettori dei tessitori. È tuttora collegato alla Parrocchiale, che dell'originale struttura mantiene poco o nulla.

Il museo si sviluppa intorno a un magnifico chiostro e non è infrequente vedere bambini che entrano per dare un'occhiata allo scheletro ricostruito dell'Ursus Spelaeus, il primo ritrovamento fatto dal Ggg, il Gruppo Grotte Gavardo, da cui è nato tutto il fermento che ha portato, a partire dagli anni Cinquanta, giovani speleologi dilettanti a diventare con il tempo archeologi dilettanti (ma non inesperti), i quali un giorno furono chiamati a vedere i primi materiali raccolti al Lago Lucone.

È per merito di quell'orgoglioso orso se oggi il Mavs ospita il calco della piroga monossile, la porta più antica d'Italia, le misteriose travi forate lunghe quasi otto metri (non c'è visitatore che non sviluppi una teoria sul loro possibile impiego originario), il cranio del bambino posto come amuleto che doveva portare buon augurio al nuovo villaggio dopo il devastante incendio che aveva distrutto il precedente. E tessuti, semi, una quantità sorprendente di vasi di varie dimensioni e fogge. Uno, molto particolare, consta due piccoli vasetti gemelli uniti tra loro. Chissà, forse veniva usato nei riti in cui una coppia si univa per creare una famiglia. Ancora oggi, in occasione delle celebrazioni dei matrimoni in museo, viene regalata una copia di questo oggetto agli sposi. Cosa maggiormente lega tra loro le generazioni se non l'amore, senza il quale saremmo estinti?

Il Lucone fu ricostruito e in seguito abbandonato perché il tempo di vivere sull'acqua era tramontato (per i palafitticoli, mentre per la Serenissima non era ancora cominciato). Nei secoli successivi si diffuse una leggenda secondo la quale in quel lago prosciugato c'era un castello di legno dove tutti si davano ai vizi. Una sorta di Sodoma e Gomorra gardesana.

Poi un giorno arrivò una maestra delle elementari e trovò strani oggetti antichi. Consultò degli esperti (essendo lei pure cultrice della materia) e oggi, in mezzo alla piana, c'è un campo di pali coperti da un tendone bianco con decorazioni verdi. I bambini delle elementari vanno a fare il campo estivo a fine agosto-inizio settembre, partecipano a laboratori di ceramica e imparano ad appassionarsi da una parte all'archeologia e dall'altra alla natura, che non è propriamente la stessa di quattromila anni fa, essendo il villaggio circondato da campi di mais, che, si sa ma è sempre meglio ripeterlo, arrivò in Europa dopo la scoperta dell'America. Chi non vorrebbe fare merenda con pane, cioccolato e patatine. Il pane c'era già ai tempi dei palafitticoli, ovvero l'Età del Bronzo. il resto no. Per il resto bisognerà aspettare Cristoforo Colombo.

Al lavoro. L’ultimo giorno i piccoli sono stati agli scavi del Lucone
Al lavoro. L’ultimo giorno i piccoli sono stati agli scavi del Lucone

I pitoti

Le incisioni rupestri sono lì da migliaia di anni, alcune ricoperte da terra e bosco e muschio o vegetali o sepolte o murate sotto o dentro costruzioni di vario genere ed epoca, altre visibili ai pellegrini, ai viandanti e anche agli autoctoni. Non che nel lungo corso della storia fossero state ritenute artistiche o di qualche rilevanza (se non per chi le faceva). Infatti, riassumendo in una parola oranti, strutture, scene di caccia, scale, rose camune, spirali, labirinti, ma con particolare riferimento alle figure umane stilizzate, i Camuni chiamavano tutto l'insieme «pitoti», pupazzetti, come se fossero qualcosa di scarso valore e significato, un passatempo e non una modalità espressiva di artisti (o geografi o sciamani) dell'età del Ferro (la gran parte delle incisioni appartengono a questo periodo, sebbene una parte di esse appartenga al Paleolitico, all'età del Bronzo e anche a epoche ben più recenti). Quelli non sono pupazzetti, bensì guerrieri, persone che costruiscono, lavorano, amano, pregano.

Di incisioni rupestri è pieno il mondo, ma in così gran numero e così elaborate ci sono solo qui. Per ora si stima siano circa trecentomila, ma chissà quante altre attendono di essere scoperte. Ciò non significa che ciascuno, improvvisandosi nuovo Schliemann camuno, sia autorizzato ad andare in Valle Camonica a bucare prati e pelare boschi a caso in cerca di stele ancora sepolte o graffiti mai da nessuno visti, beninteso. Ora le conoscono tutto il mondo, ma, pur essendo molte di esse sotto gli occhi di tutti da millenni, solo all'inizio del Novecento iniziano ad attrarre archeologi, che s'interessano per la prima volta a questi racconti su pietra. Si trovano foto di studiosi seduti sopra le rocce incise, spesso sono in gruppo e si capisce che hanno anche intenzione, tra un'osservazione e l'altra, di fare un pic nic. Insalata di tacchino con patate e pomodori? Alcuni abitanti dei paesi li accompagnano a vedere le rocce, altri li guardano incuriositi, chiedendosi cosa ci trovano d'interessante in quei graffiti. Pian piano la passione per le incisioni cresce e i pitoti (tutti insieme) diventano il primo sito italiano iscritto nella lista del Patrimonio dell'Umanità (siamo nel 1979) e ora la Valle Camonica si è data un soprannome: Valle dei Segni.

Museo nazionale della preistoria della Valle Camonica
Museo nazionale della preistoria della Valle Camonica

Quello che non vedi negli otto parchi archeologici (Naquane, Seradina-Bedolina, Massi di Cemmo, Sellero, Coren delle Fate, Ceto-Cimbergo-Paspardo, Asinino-Anvòia, Lago Moro-Luine-Monticolo) lo trovi al Mupre, il Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica, aperto nel 2014. Si trova nel centro storico di Capo di Ponte all'interno di Villa Agostani, splendido edificio dalla rassicurante facciata bianca che nel XVI secolo era sede di un seminario vescovile. A piano terra sono esposte statue stele provenienti da vari siti (Cemmo, Ossimo-Anvoia, Borno, Pat, Malegno). Entrare in queste antiche sale silenziose e linde e trovare qualcosa di molto più antico dà un'emozione difficile da descrivere. Ti lascia interdetto, come se avessi davanti qualcosa d'inaspettato. Sai, perché lo leggi, che sono sculture antiche, ma dialogano con te come se fossero state incise il giorno prima. Non sono moderne, sono contemporanee. Lastre con file sovrapposte di pitoti che si tengono per mano, come in una processione. Labirinti appaiati che sembrano elaborati pendagli. Un sole in cima a una grande pietra decorata, un guerriero-stregone-divinità. Una scultura ha al centro una sorta di cerchio di pietre con all'interno una divinità che ha sulla testa una corona solare e un uomo, entrambi in preghiera. A sinistra un'ascia e a destra, per uno strano caso, quello che sembra il lacerto del braccio di una statua antropomorfa. Davvero difficile non perdersi in congetture.

Altre più le guardi più riconosci l'essere umano che rappresentano, vedi le collane di una figura femminile che ha un sole come viso. Poi vedi un'ascia, pugnali e, alla base, alcuni cervi con un corpo molto lungo. O è un aratro trainato da buoi? Così una stessa scultura può sembrare una donna o una scena metafisica o astratta. O entrambe le cose. Interpretare correttamente tali testimonianze è complicato e certo nessuno può improvvisarsi esperto e pensare di aver capito per primo ciò che viene studiato da oltre un secolo, ma non c'è visitatore che, dopo mezz'ora e dopo che gli occhi si sono abituati alla vista, non si convinca (come nel caso delle travi del Lucone) di aver capito qualcosa in più di tutti gli altri.

Il labirinto concentrico è l'immagine del lungo e all'apparenza interminabile percorso che l'essere umano fa nella vita
Il labirinto concentrico è l'immagine del lungo e all'apparenza interminabile percorso che l'essere umano fa nella vita

Il complesso labirinto concentrico (figura che si trova anche nelle rocce incise nei parchi archeologici camuni) non è un gioco raffinato in cui perdersi, sebbene sia ipnotico: è l'immagine del lungo e all'apparenza interminabile percorso che l'essere umano fa nella vita per arrivare al centro e trovare le risposte esistenziali che cerca. Per ritrovare se stesso, forse. La più meravigliosa, la più magica di tutte le statue stele ha sul petto quattro pugnali messi uno sopra l'altro e un quinto spostato a lato. E in cima sempre un sole, che sta al posto del viso, come se la testa umana (o divina) fosse una metafora del sole stesso. Non ci troviamo di fronte a creature abbozzate, ma a persone vere. Con una volontà, un cuore, desideri. Simbolismo e naturalismo si confondono con una spontaneità che avvicina l'osservatore all'uomo e alla natura con straordinaria immediatezza.

Il grande piano superiore, con le sue molte vetrine, apre a una visione dei camuni diversa rispetto a quella a cui siamo abituati. Li conosciamo come abilissimi incisori, ma nella vita facevano anche altro. Ci troviamo di fronte a una rassegna di oggetti trovati nei villaggi, nei luoghi di culto e nelle sepolture. Vale la pena, dopo le rocce giganti, soffermarsi su questi piccoli reperti che parlano della loro vita quotidiana. Il passaggio dal grande al piccolo è tanto immediato quanto utile per cambiare prospettiva, per vedere i camuni come il popolo che erano, con gli utensili di uso comune. Ciò non abbassa la nostra considerazione nei loro confronti, anzi aumenta l'ammirazione verso chi viveva normalmente con le normali difficoltà di un Uomo di montagna dell'età del Ferro e riusciva a trascendere la propria quotidianità trasformandola in un viaggio nel sacro.

Così il cuore di Brixia è uscito dalla terra

Il Tempio Capitolino di Brescia, una volta caduto l'Impero d'Occidente, fece la fine di tutti gli altri templi di età romana: fu depredato, spogliato per ricavarne materiale da costruzione per nuovi edifici e infine abbandonato. E, poiché le città con i secoli tendono ad alzarsi, finì per rimanere sepolto. Finché il pittore Luigi Basiletti a inizio Ottocento, dopo aver avuto modo di conoscere a Roma l’importanza delle ricerche archeologiche e dei loro risultati, decise di applicare a Brescia quanto aveva appreso. Sollecitata una raccolta pubblica di Fondi, avviò una campagna di indagini in piena regola a partire da una colonna che spuntava da terra, riportò alla luce il tempio di Giove e cercò per quanto poteva di rimetterlo in piedi (processo che si chiama anastilosi) per restituirgli non si dice lo splendore primigenio, ma la dignità di un luogo dedicato a museo, per l’educazione delle nuove generazioni alla conoscenza delle loro antiche origini. Così il cuore dell'antica Brixia è uscito dalla terra e ha ripreso il suo posto d'onore di fianco a Santa Giulia.

Brixia parco archeologico di Brescia romana
Brixia parco archeologico di Brescia romana

La parte più antica di quello che per secoli fu un monastero femminile benedettino è San Salvatore, la chiesa intorno alla quale si è sviluppato nel corso dei secoli (circa un millennio) il meraviglioso complesso che oggi è Santa Giulia, con chiese, un museo che ripercorre la storia del territorio, la splendida sezione dedicata alle Domus dell'Ortaglia. Chiesa e monastero, ora inglobate nella varietà di stili ben armonizzati che oggi fanno di questo luogo un unicum architettonico, furono fondati nel 753 da Desiderio, allora Duca e non ancora Re dei Longobardi (sarebbe stato anche l'ultimo) e da sua moglie Ansa per la figlia Anselperga, prima badessa del monastero. San Salvatore è una basilica alta, imponente, luminosa. Un insieme di stucchi e affreschi che si sposano alla perfezione con le pietre lavorate dalle mani dei costruttori longobardi e con i marmi romani riutilizzati. Un puzzle tridimensionale di pezzi che, uniti, creano la perfezione. Nella cripta, fitta di colonne, furono collocate le reliquie di Santa Giulia e nel 763 basilica e monastero furono consacrati da Papa Paolo I.

San Salvatore subì modifiche fin dall'epoca carolingia. Siamo già nel 1526-’27 quando il Romanino dipinge le Storie di Sant'Obizio nella cappella a destra dell'ingresso.

Storie di Sant'Obizio nella cappella di San Salvatore
Storie di Sant'Obizio nella cappella di San Salvatore

A perfezionarne ulteriormente l'armonia del complesso monastico dal 1520 in avanti Paolo da Caylina il Giovane e Floriano Ferramola (che sicuramente ultimerà la sua parte prima del 1528, anno in cui morirà di peste) affrescano il Coro delle Monache, costruito alla fine del Quattrocento per permettere alle monache di clausura di seguire le funzioni nella Chiesa di San Salvatore senza essere viste. Un apparato pittorico straordinario, che culmina nella Crocefissione di Cristo del Ferramola.

Nel corso dei secoli, grazie alle donazioni delle famiglie delle novizie e dei devoti, il monastero si è ingrandito, con l'aggiunta di chiese (l'ultima delle quali, ultimata nel 1599, è quella dedicata a Santa Giulia), chiostri, affreschi, ognuno con lo stile pittorico e architettonico dell'epoca in cui fu realizzato. Incomparabile è Santa Maria in Solario, decorata nel Cinquecento con gli affreschi di Floriano Ferramola. Lascia senza fiato il suo cielo stellato (uno simile ricopriva la volta della Cappella Sistina prima che Michelangelo lo sostituisse con il Giudizio Universale), sotto il quale brilla la Croce di Desiderio, gioiello di valore inestimabile. Oltre mille anni di oreficeria e storia in un unico oggetto, che splende quasi più del cielo dipinto che la sovrasta.

Tutto andò avanti fino al 1798, quando si abbatterono anche su questo ormai millenario convento le soppressioni, e le relative confische dei beni, volute da Napoleone Bonaparte. Santa Giulia fu riconvertita addirittura in caserma e dopo che il conquistatore divenne «Ei fu siccome immobile» (ma quanto è legato Alessandro Manzoni a questo luogo? Ermengarda e Napoleone, l'alfa e l'omega di Santa Giulia, sono protagonisti di due sue opere), finì per essere occupato da varie e svariate funzioni fino agli anni ‘70, quando il Comune di Brescia ne decise il recupero come luogo di cultura e pian piano lo restaurò e creò quello sfavillante complesso museale che oggi è.

Questo millenario ineguagliabile complesso religioso è uno scrigno di tesori, tra cui un albero e due uccelli. L'albero è il tiglio di Ermengarda. Lì, nel chiostro di Santa Maria in Solario, proprio dove Alessandro Manzoni dice sia morta di dolore l'eroina dell'Adelchi, figlia di Desiderio data in sposa e poi ripudiata da Carlo Magno, si può ammirare questa poetica (sì, poetica) pianta (tra l'altro si trova lungo il percorso del Corridoio Unesco).

Il chiostro di Santa Maria in Solario
Il chiostro di Santa Maria in Solario

Ovviamente non è l'originale e non sappiamo nemmeno se Ermengarda sia davvero morta lì sotto, ma è davvero tanta la poesia di questo albero messo lì da poco ma arrivato da una tragedia scritta nell'Ottocento in cui si immaginano gli ultimi attimi di vita di una principessa ed ex-regina infelice. Non è la pianta in sé, non è l'oggetto, in questo caso a fare tutto è la suggestione, che rende vero ciò che potrebbe non esserlo, rende attuale la visione di uno scrittore, crea empatia con l'insieme, dà l'idea delle origini, delle radici di tutto il monastero. Magico e tragico, il tiglio di Ermengarda, vittima dei capricci degli uomini che ha trovato la pace a Santa Giulia, anche lei vittima dei capricci degli uomini.

Il gallo di Ramperto è un galletto segnavento in rame, realizzato all'inizio del IX secolo. Un oggetto simpatico e insieme mistico, commissionato dal vescovo Ramperto per essere posizionato sulla cima del campanile della chiesa dei Santi Faustino e Giovita, patroni di Brescia, e rimasto lassù per milleduecento anni (nel suo genere è il più antico che si conosca).

Il gallo di Ramperto
Il gallo di Ramperto

Un oggetto in apparenza delicato e invece molto resistente, raffinatissimo ma di cui, datasi la posizione in cui si trovava, era difficile se non impossibile apprezzare la bellezza. Forse con il tempo si era perso persino il ricordo dell'antichità di questo galletto esposto per dodici secoli alle intemperie, alle guerre, a ogni evento. Una specie di guardiano, un muto custode che ha visto tutto quello che è successo e da ogni prospettiva, essendo appunto fatto apposta per ruotare su se stesso. È sceso dalla sua postazione nel 1891, dopo aver probabilmente perso il conto delle milioni di persone che aveva visto, degli invasori, delle guerre, dei matrimoni, dei funerali, in un perenne giramento di testa che, invece di distruggerlo, lo ha reso saggio a 360° e non lo ha invecchiato di un giorno. Ora, lustro e arzillo (come un galletto, appunto), è nella sua vetrina a continuare a guardare gente che passa, senza avere più la necessità di muoversi in cerchio per osservare le cose da tutti i lati.

Risalente al  760-770. Lastra di ambone con pavone nella chiesa del monastero di San Salvatore a Brescia
 Dell’VIII secolo. Frammento di transenna con croce e pavoni, dall’arredo di Santa Maria della Piazza (oggi Museo Diocesano) ad Ancona
 Per il raffronto. Particolare della lastra fotografata nel complesso monumentale di Santa Giulia
 Dell’VIII secolo. Frammento di transenna con croce e pavoni, dall’arredo di Santa Maria della Piazza (oggi Museo Diocesano) ad Ancona
Risalente al 760-770. Lastra di ambone con pavone nella chiesa del monastero di San Salvatore a Brescia Dell’VIII secolo. Frammento di transenna con croce e pavoni, dall’arredo di Santa Maria della Piazza (oggi Museo Diocesano) ad Ancona Per il raffronto. Particolare della lastra fotografata nel complesso monumentale di Santa Giulia Dell’VIII secolo. Frammento di transenna con croce e pavoni, dall’arredo di Santa Maria della Piazza (oggi Museo Diocesano) ad Ancona

I pavoni longobardi di San Salvatore appartengono alla seconda metà del IX secolo. Sono due gemelli speculari, uno dei quali è frammentario, mentre l'altro è perfetto, perfetto come l'immortalità di cui è simbolo. Forse all'inizio facevano parte di un ambone, che fu in seguito smontato, ma loro erano così belli che furono messi da parte forse per farne altro uso. Ora, collegato al suo gemello meno fortunato, il regale pavone è tornato a casa, dove splende nel bianco del marmo proconnesio (amatissimo dai Romani, era un lussuoso marmo che veniva dall'isola di Proconneso, nel Mar di Marmara). Non sta facendo la ruota, è elegantemente scolpito a bassorilievo nel triangolo che lo contiene. Intorno a lui un tralcio di vite continuo si districa tra il nobile animale e il margine esterno, in un preciso intreccio di nastri. Tutto parla di Rinascita, di Vita, Resurrezione (Io sono la vite e voi i tralci, dice il Vangelo, e inoltre la vite è simbolo di Dioniso/Bacco, l'unica divinità pagana a essere risorta), Vita Ultraterrena (è in un triangolo, simbolo della Trinità). Il pavone più bello del mondo non è quello che fa la ruota mostrando le sue strepitose penne colorate, ma questo, che, nel pudore candido delle sue penne composte, ci indirizza come una freccia verso l'Eterno.

Le mura veneziane a Bergamo

Dopo la terribile sconfitta di Agnadello, il 14 maggio 1509, Venezia, la più straordinaria città su palafitte mai edificata, sembrava giunta alla fine della sua strepitosa avventura. Aveva perso contro la Lega di Cambrai, costituita dalle tre grandi potenze dell'epoca, Francia, Spagna e Stato Pontificio, lasciando sul campo di battaglia 15.000 soldati, in pratica un esercito. Aveva perso quasi tutti i suoi territori di terra, ridotti a una striscia intorno alla Capitale, ma non l'incredibile rete commerciale che le aveva dato nel corso dei secoli un enorme potere economico e una disponibilità di fondi notevolissima. Insomma, era sconfitta ma ancora ricchissima. A quel punto aveva due scelte: barricarsi nei pochi territori rimasti o riprendersi tutto. I veneziani optarono per la seconda ipotesi. Costituirono un esercito di 20.000 uomini (non solo di mercenari, ma di contadini addestrati come fanti) e in vent'anni riconquistarono tutto, inclusa Bergamo, che usciva da un periodo di continue invasioni. Si rendeva necessario difenderla.

Le mura orobiche. Porta San Giacomo con il leone di San Marco: uno degli accessi a Bergamo Alta // FOTO M. BATTAGLIA
Le mura orobiche. Porta San Giacomo con il leone di San Marco: uno degli accessi a Bergamo Alta // FOTO M. BATTAGLIA

Fu deciso di farlo «alla maniera picciola», secondo il progetto di un abile e geniale uomo d'arme, Sforza Pallavicino, che ebbe l'idea di costruire una fortezza «di monte», a protezione della parte alta della città e di conseguenza tagliando fuori la parte bassa. La fortezza era l'estrema propaggine di un complesso sistema difensivo costituito da una serie di altre fortezze, non a caso distribuite lungo quello che è l'attuale tracciato della A4 nel tratto Milano-Venezia. Sforza Pallavicino, per realizzare quest'opera avveniristica, in pratica aveva preso una cartina di Bergamo e vi aveva disegnato sopra il tracciato della fortezza che doveva sorgere, secondo lui, in circa tre mesi. Così, una mattina di luglio del 1561, si presentò con muratori e soldati (a difesa dei muratori) e iniziò ad abbattere gli edifici civili e religiosi che si trovavano sulla linea del tracciato delle nuove mura e ne ostacolavano la costruzione. Ne nacque quello che ai tempi (e non solo a Bergamo) era definito «guasto»: case, chiese, orti e vigneti furono rasi al suolo.

I bergamaschi, soprattutto quelli le cui abitazioni e attività sorgevano proprio in corrispondenza del tracciato del progetto, rimasero sotto shock. Anche molti monaci e personale ecclesiastico, giacché il guasto non risparmiò nemmeno chiese e monasteri. Nemmeno la Cattedrale di Sant'Alessandro, dove erano custodite le reliquie del patrono della città, le quali furono portate via alla disperata insieme a tutto il resto. Il disappunto dei cittadini, vittime del guasto e non, a quel punto era davvero parecchio. Nessuno poteva essere o dirsi certo che non sarebbero state apportate varianti di progetto con ulteriori abbattimenti.

Alla fine di quell'anno comunque i lavori erano a buon punto, peccato che finirono nel 1588, 27 anni dopo la posa della prima pietra (o la demolizione della prima casa, a seconda di come la si vuole vedere). Ora la cinta muraria, esempio perfetto di fortezza alla moderna (nota all'estero con il nome di trace italienne) e di unione tra architettura e natura, collega attraverso le sue magnifiche porte (e anche con l'aiuto della funicolare) le due parti della città che era nata per separare. Questa lunga ferita, nata come una corona di spine sulla parte superiore della città, è diventata vanto e orgoglio e simbolo della forza e del coraggio dei bergamaschi (e anche della loro santa pazienza, se vogliamo).

Crespi d’Adda

Il villaggio operaio di Crespi d'Adda
Il villaggio operaio di Crespi d'Adda

Chi, prima di Cristoforo Benigno Crespi, avrebbe mai pensato di aprire un cotonificio vicino al fiume Adda, con centrale idroelettrica che alimenta i macchinari di una fabbrica il cui personale abita nel villaggio adiacente, costruito a tempo di record tra il 1876 e il 1877 e rifinito nei successivi decenni? Lì non si producevano tessuti da poco, ma un cotone raffinato, utilizzato per camicie e abbigliamento di classe, destinato in gran parte all'esportazione. Tutto va bene fino al Ventennio fascista, quando vengono imposti dazi sulle esportazioni e il cotonificio conosce una lunga crisi. A partire dagli anni Trenta inizia un inarrestabile declino. Tra mancanza di lavoro, guerra e operai che cambiavano lavoro i Crespi, con alterne fortune, portano avanti l'attività fino al 1970, sei anni dopo le case vengono vendute ai privati e la fabbrica, separata dal villaggio, viene venduta alla famiglia Legler, che produce denim, il tessuto dei Jeans.

Nel 2003 per l'ultima volta suona la sirena di fine lavoro e la fabbrica chiude definitivamente i battenti. Ora il dopolavoro è un bel ristorante, la scuola è centro visitatori e museo, le case sono ancora (anche se non sempre) abitate dai discendenti dei dipendenti dei Crespi e la centrale idroelettrica ha sotto di sé una nuova centrale ultramoderna.

Dopo i fasti l'abbandono, dopo il successo il declino, dopo la fortuna la malasorte: in una lunga vita sono cose che capitano anche ai migliori edifici. A volte capita anche, come nel caso di questi siti, di diventare Patrimonio dell'Umanità e che un valore precedentemente non compreso o sottovalutato venga infine riconosciuto, che trovi un corridoio per le stelle.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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