L’ingegnere guerriero che progettò le mura
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Quando una bella mattina (una di quelle famose belle mattine in cui si inizia a dare forma alle idee) arrivarono le maestranze con le strutture in legno e pietra, con strumenti e mine e barili di polvere per abbattere gli edifici i bergamaschi si trovarono subito in mezzo a un cantiere guidato dal marchese Sforza Pallavicino, uomo d'arme, accompagnato da colleghi e soldati.
Non sapevano quello che sarebbe successo né quanto sarebbero rimasti né quale colpa avessero, oltre a quella di essere stati invasi in soli sette anni da vari eserciti (era l'inizio del Cinquecento). Era il 31 luglio 1561 e i bergamaschi non stavano partendo per le ferie. Sforza Pallavicino, genio dell'architettura militare nonché abile stratega, si era presentato al Senato veneziano con il suo rivoluzionario progetto di fortificazione per Bergamo e l'idea era piaciuta. Ovviamente era abbastanza prevedibile che non sarebbe piaciuta ai bergamaschi, ma ai maggiorenti veneziani il loro parere non interessava più di tanto. Anzi, non gliene importava nulla e non avevano nessuna intenzione di risarcire i danni a nessuno. Infatti non lo fecero.
Il guasto
Così quella mattina si presentarono senza preavviso con centinaia di soldati armati e un esercito di manodopera e cominciarono a demolire seguendo il progetto dello Sforza Pallavicino. Quel giorno iniziò a essere operato quello che sarà chiamato il guasto, cioè lo sbancamento degli edifici al posto dei quali dovevano sorgere le mura. Progetto assolutamente geniale, che prevedeva di creare intorno alla parte alta di Bergamo una fortezza, con punti in cui le mura erano molto più alte di quanto noi vediamo oggi (dai 7,5 metri ai 19,3 metri). Spaventose, ardite, fornite di tutto, ma soprattutto di baluardi. Le mura avevano tutto, postazioni per i cannoni, ma anche torresini/polveriere per conservare la polvere da sparo, polveriere.

Questo cantiere, il grande sogno di Sforza Pallavicino, cominciò con famiglie che si svegliarono con la casa che stava per essere abbattuta, monaci che scoprirono all'improvviso che quella era l'ultima messa che avrebbero celebrato in quella chiesa. Stessa cosa per chi aveva attività nelle parti interessate dai lavori. Furono portate in salvo (in quello che sarebbe diventato il Duomo) le reliquie di Sant'Alessandro, patrono di Bergamo la cui chiesa purtroppo si trovava nel percorso della nuova cinta protettiva. In tutta fretta, così come di gran corsa furono messe al sicuro una serie di tele, come i capolavori di Lorenzo Lotto, oggi conservati in alcune chiese della città.
Pensate all'agitazione di quei primi giorni, alla rabbia, al dolore di quelli che vedevano le loro proprietà e attività (alcune ricche, altre povere) distrutte in nome della necessità di Venezia di mostrare agli Spagnoli che occupavano Milano e a chiunque avesse voluto provare ad attaccare il loro estremo baluardo occidentale che loro si sarebbero potuti difendere in modo esimio. Anche dai colpi di cannone, ai quali avrebbero risposto con notevole potenza di fuoco.
L'unico edificio presente nel tracciato della fortezza che venne risparmiato è il convento di Sant'Agostino (in teoria perché secondo Sforza Pallavicino era in una posizione ottimale per fare angolo, in pratica perché a quanto pare i potenti agostiniani a suon di soldoni si comprarono una modifica progettuale che salvava il monastero inserendolo in un baluardo, ma c'è da dire che la struttura, solida e ampia, si prestava bene), ma ciò non fece altro che irritare ulteriormente il Papa, che scomunicò lo Sforza Pallavicino per l'ennesima volta (in pratica una per ogni chiesa abbattuta), il quale ci restò male ma non tanto da fermare i lavori (le scomuniche furono poi ritirate per un pentimento non si sa quanto sentito). Dopo il gran trambusto iniziale ci vollero anni prima di completare l'opera, anche se lo Sforza Pallavicino, dimostrando grande ottimismo e soprattutto grande senso dell'umorismo, aveva appunto detto ai veneziani che avrebbe completato tutto in tre mesi.
Tutto il perimetro diventò un immenso cantiere dove lavoravano anche donne e bambini, dove ci si fermava per il pranzo, magari seduti sui ponteggi in legno con i piedi penzoloni come in certe foto storiche in cui si vedono gli operai che costruivano i grattacieli seduti su barre di acciaio sospese nel vuoto.
27 anni di lavori
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Intanto evidentemente i vicini non avevano grandi intenzioni di attaccare la città, dato che i lavori durarono 27 anni e non arrivò nessun esercito nemico. Il fatto che si fossero messi in modalità osservazione non significa che l'opera li lasciasse indifferenti, tutt'altro. Il nostro Governatore Generale aveva studiato il bastione rivolto verso Milano in modo che avesse due mura che creavano un angolo così stretto da sembrare una sorta di gigantesco appuntito cuneo puntato verso la città nemica, come a dire ai milanesi, anzi agli spagnoli che allora la occupavano, che l'estremo baluardo era acuminato e, se osavano avvicinarsi, sarebbero stati squarciati in primis da quel muro che pare una lama. Poi avrebbero dovuto vedersela con il resto della cinta difensiva.
Questo grande sogno divenne realtà, ma il suo ideatore non lo vide mai realizzato in quanto morì davanti al lago di Garda, nella sua residenza di Salò, tre anni prima della fine dei lavori. Ci lavorarono i migliori ingegneri della Repubblica. Il veronese Francesco Malacreda e il vicentino Francesco Orologi noto anche come Horologi (il quale sparì molto rapidamente dalla scena perché espresse in maniera ripetuta molte note critiche alle decisioni e ai progetti di Sforza Pallavicino), Genesio Bersani da Fiorenzuola d'Arda e infine Giulio Savorgnan, che ultimò i lavori dopo la morte di Pallavicino e che in seguito progettò la fortezza di Palmanova.
Tutti insieme produssero l'innovativo progetto della fortezza alla moderna, una cinta allargata completamente rivestita di pietre squadrate e dotata di un sistema di bastioni che permettevano il tiro incrociato contro i nemici. Qualcosa di unico, che gli stessi autori del progetto, osservando la conformazione orografica del sito su cui stavano costruendo la fortezza e come essa si unisse in modo armonioso e indissolubile con il monte su cui stava sorgendo, nel 1565 (cioè durante la realizzazione dell'opera) definirono «non lo vedendo non si può capire». Struttura innovativa, a tal punto che un profano non avrebbe potuto comprenderne la portata se non a lavori ultimati.
Innovativa, ma non abbastanza per i tempi, poiché le armi da fuoco diventavano sempre più moderne e il cantiere non finiva mai. Ventisette anni sono tanti. Insomma, in quanto a tempistica ci troviamo di fronte a un tipico esempio di opera pubblica italiana, in questo caso di grandissimo impatto visivo. Un capolavoro.
Ma i nemici non arrivarono mai
Tutta questa fatica, tutto questo lavoro, tutto questo impegno economico e tutto questo fastidio e alla fine nessun colpo di cannone venne mai sparato né contro né da quelle mura, che sono arrivate a noi in uno straordinario stato di conservazione. Sono rimaste un grande sogno, ma molto più democratico: non sono lì per incutere paura e per celebrare la potenza della Serenissima, ma per essere se stesse e donarsi a una città libera. Sui camminamenti si passeggia, si attraversano le porte d'accesso, aperte, e in fondo allo strapiombo delle mura ci sono orti coltivati. Il passato è lontano. Rimane questo irregolare diamante di pietra, perfettamente fuso con il colle, che dà ragione ai suoi progettisti: se non lo vedi (o lo sai immaginare) non lo puoi capire.
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