Un monumento a chi ha rinunciato a ciò che vale più di tutto

Clementina Coppini
Un’opera ai prodi bresciani realizzata da Luigi Pagani al cimitero Vantiniano ricorda chi ha combattuto per l’unificazione dell’Italia
L’opera in marmo dello scultore Luigi Pagani
L’opera in marmo dello scultore Luigi Pagani
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Le Dieci Giornate di Brescia del marzo 1849 furono un bagno di sangue. Dieci anni dopo le spaventose battaglie di Solferino e San Martino causarono un tale numero di vittime da ispirare a Henri Dunant, uomo d’affari ginevrino che, passando nei giorni successivi l’evento vicino a quei campi pieni di soldati morti, mutilati e in orrenda agonia, assistiti da pietosi contadini in assenza di bende, medicine e medici, l’idea di fondare la Croce Rossa.

Tutti, dopo quegli orrori, sentivano profonda la necessità di celebrare il sacrificio di quegli uomini. Si pensò ad un’opera da porre nel Vantiniano a loro ricordo, ma fu solo nel 1877, a seguito di un lascito testamentario lasciato dalla mecenate Teresa Sempreboni Boroni, che fu indetto un concorso vinto dallo scultore Luigi Pagani. L’artista realizzò così il Monumento ai Prodi Bresciani.

La scultura

Una donna con una tunica e in testa una corona turrita, in cima a tre gradini, sta salda davanti a una porta di bronzo. Ai suoi piedi un leone: ha la criniera, ma osservando la sua fierezza viene in mente lei, Brescia, Leonessa d’Italia, epiteto conquistato per il coraggio dimostrato in quei dieci tragici giorni del ’49. È accucciata, ma pronta ad attaccare: una leonessa con la criniera.

La donna è l’Italia, con uno spadone nella mano destra e nella sinistra un mazzo di foglie di palma (molte, perché molte furono le vittime), simbolo del martirio. Dietro la porta le ossa dei guerrieri (anzi, una piccola parte di esse), custodite per sempre dalla Patria e dalla Leonessa. I resti di questi pochi rappresentano tutti i bresciani che hanno combattuto per l’Italia nelle Tre Guerre d’Indipendenza.

Ai lati della porta due panoplie, che nell’antica Grecia erano le armature complete (tale è il significato letterale della parola) degli opliti, i cittadini-soldati che combattevano per il proprio Paese. Il termine passò in seguito a definire un ornamento, un trofeo avente l’aspetto di una composizione di armi, usato per celebrare il valore militare.

Il pensiero

Austero, dignitoso, l’insieme sembra voler ricomporre lo sfacelo e lo strazio di carni e arti causato dalla guerra e sublimarlo in una visione di pace, anzi di requie (l’Italia è comunque armata e il leone/leonessa ha uno sguardo severo). Ma il richiamo costante di questo sepolcro non è al Nobile Felino e alla Patria, bensì a coloro che stanno dietro a quei battenti chiusi (realizzati in un materiale diverso per focalizzare l’attenzione).

Il pensiero va di continuo a queste persone, che avevano una vita, speranze, affetti, a cui hanno voluto o dovuto rinunciare. Sono lì, oltre la porta, perché noi si possa essere qui, liberi. È un monumento a ciò che non si vede e quasi sempre, o forse sempre, ciò che non si vede coincide con ciò che vale più di tutto. «Forse il sacrificio non è inutile, dal momento che ci sono uomini che preferiscono l’onore alla vita» (James John Frazer).

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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