L’abbazia dei chiostri, degli affreschi e della luce

Clementina Coppini
Il ritorno nel 1969 a Rodengo Saiano degli Olivetani, per iniziativa di Paolo VI, ha restituito al complesso di San Nicola pulizia, dignità, magnificenza
Uno dei chiostri dell’Abbazia olivetana di Rodengo Saiano
Uno dei chiostri dell’Abbazia olivetana di Rodengo Saiano
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Il primo chiostro è un angolo di medioevo con ulivi, il secondo chiostro splende dell’armonia di un portico serliano (due coppie di colonne sormontate da un’architrave e separate da un arco, invenzione di Sebastiano Serlio). Il Terzo, di rinascimentale maestosità, ha due loggiati sovrapposti. È solo l’inizio di quell’esperienza visiva taumaturgica che è l’Abbazia di San Nicola a Rodengo Saiano. Fondata poco dopo il Mille dai Cluniacensi di San Benedetto, nel 1446 passò agli Olivetani. Piano piano, di chiostro in chiostro, inizi un’evasione dalle brutture del mondo e dalle tue, anzi una sorta di percorso di elevazione spirituale.

Le opere

Non stonano affatto, nel Refettorio della Foresteria, le copie dei dipinti del Romanino, ora alla Tosio-Martinengo, ma che in origine erano qui. Con buona pace dei puristi, l’impressione di un profano è che sia meglio guardare una bella riproduzione di originali che una povera parete spoglia. Invece il Gesù con la Samaritana al pozzo, sempre del Romanino, c’è ancora. Cercate lui e il resto.

Osservate ovunque, studiate ogni angolo: qualcosa si trova sempre. Anche sopra la propria testa. Alzi lo sguardo ed ecco, nell’Anti-Refettorio, il soffitto dipinto da Lattanzio Gambara: opera apocalittica, sia per via dell’argomento (Apocalisse e storie dell’Antico Testamento) sia per ciò che si prova guardandola a naso in su. Sulla parete di fondo della sala da pranzo appare, ai piedi di una Crocifissione forse del Ferramola, la scritta «Silentium», che suona più come un consiglio che come un ordine. Nell’angolo di una stanza una grande acquasantiera scavata nel muro ha un affresco con Mosè salvato dalle acque.

File di porte spalancate che si aprono su infinite sale, ampie e accoglienti. Corridoi interminabili, spazi che non finiscono mai e che, per una sorta di osmosi, iniziano a creare spazio nella tua mente e nel tuo cuore. Ovunque una luce calda, rassicurante, rigenerante. La chiesa dalla quattrocentesca facciata preceduta da un viale di cipressi è stata internamente affrescata a metà Settecento con imprevista leggiadria. Le cappelle ospitano, oltre a un dipinto del Moretto, quadri di celebri maestri. E gli stalli intarsiati del coro? Ipnotici.

La veste di Paolo VI

Anche stavolta ovunque una solare soavità, sottolineata dalla bianca veste, conservata in una teca, di Papa Paolo VI. Fu per sua iniziativa che l’abbazia, dopo lunga decadenza, vide nel 1969 il ritorno degli olivetani che le hanno restituito pulizia, dignità, magnificenza. Poco prima dell’uscita ecco la grande tela secentesca delle Nozze di Cana (opera di Grazio Cossali) che prima copriva la Crocifissione nel Refettorio e ora è stata (giustamente) spostata qui, a ricordare la gioia, la vita. E lei, la Vita, scaturisce da ogni millimetro di questo enorme monastero, che da essa trae la sua profonda e allegra sacralità, la sua incontenibile e contagiosa Luce.

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