La porta d’ontano venuta da lontano

Clementina Coppini
Rinvenuta nel sito archeologico del lago Lucone, in Valsabbia, risale a 4.000 anni fa. Oggi la porta è conservata nel Museo Archeologico di Gavardo
La porta più antica d'Italia è conservata al museo di Gavardo
La porta più antica d'Italia è conservata al museo di Gavardo
AA

In certe giornate storte pensi che nulla possa risollevare il tuo umore. Anzi pensi di non poterti più risollevare nemmeno tu. Vorresti accucciarti in un angolo e restare immobile o camminare a caso per arrivare non sai nemmeno dove, tanto tutto ti sembra inutile: la tua vita in specifico, la vita in generale con tutte le questioni maiuscole a cui di solito non pensi. Perché sei un essere umano e ti perdi in stupidaggini.

È sera tardi e sei conscio di aver buttato un’altra giornata. Le ore sprecate e irrecuperabili sono un pessimo argomento su cui soffermarsi. Poi ti viene in mente che giusto stamattina, tra una sosta al bar e una alla farmacia, sei entrato nel Museo Archeologico di Gavardo a guardare una porta. Non una porta qualunque, antipanico, antifuoco, antimosche o anti quello che vuoi. Una porta di quattromila anni fa, di legno d’ontano. La più antica d’Italia.

Vicino a lei due travi forate di più di sette metri, di quercia. Del 2034 avanti Cristo, datate con la dendrocronologia all’anno esatto perché con la quercia tale operazione si può fare e con l’ontano no, ma è probabile che porta e travi siano pressoché coeve. Erano parti del villaggio di palafitte del lago Lucone. Lontano legno d’ontano, già solo questo è poetico.

La porta d’ontano

Questa porta è stata fatta dai nostri avi con le proprie mani per chiudere la loro casa, proteggersi dal buio della notte e dalla paura (ancora adesso non ci blindiamo nelle nostre dimore in cerca di sicurezza?), per tenere dentro il caldo e per altri comprensibili motivi. A pensarci bene non parliamo di un tempo così remoto e fuori dal nostro modo di vedere le cose. Il periodo delle palafitte va interpretato, perché i nostri avi non scrivevano. Ma se riusciamo a immaginarli per come erano, per come lottavano, per come cercavano di sopravvivere e di portare avanti le loro famiglie e le loro piccole comunità che cosa c’è in loro di così diverso da ciò che siamo?

Se osserviamo le nostre mani, spesso non di falegnami, ci rendiamo subito conto di non poter replicare quell’oggetto, che sembra tanto facile da fare ma così non è. Che ha una chiusura studiata, una sua austera grazia. Guardi le tue mani inette di creatura contemporanea e pensi che senza quelle antiche mani che hanno scelto l’ontano per guardare lontano non saresti qui a digitare su un computer, non saresti qui a leggere e forse non saresti proprio qui.

Quando ti avvicini la vetrina s’illumina e la porta si mostra nei dettagli, nella raffinatezza e anche nelle (legittime) imperfezioni donatele dai millenni. Ecco, ora non ti sembra più tutto così inutile. Il tuo umore cangiante, le tue quotidiane miserie sono oscurate dalla luce di questo manufatto, che apre la tua mente sul mondo dal quale sei arrivato. Che rappresenta il motivo per cui esisti. «Non so dove vada la mia strada, ma cammino meglio quando la mia mano stringe la tua» (Alfred de Musset).

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Condividi l'articolo

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato

Icona Newsletter

@Buongiorno Brescia

La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.