La Chiesa dei Morti di Gussago, che fa sentire guariti e purificati
Avete presente quando arrivi in un posto e ti aspetti una cosa minima e invece ci trovi dentro un mondo? Santa Maria Assunta, detta Chiesa dei Morti, a Piè del Dosso di Gussago è così. Un sito con un soprannome del genere verrebbe da immaginarlo deprimente e cupo: invece è inondato di luce e di vita, malgrado i morti di peste che, dopo l'epidemia del 1630, trovarono eterna pace sotto il prato che si stende davanti alla sua facciata elegante e spartana, su cui spicca il raffinato portale quattrocentesco.
Fondata nell'ottavo secolo e ampliata tra il 1200 e il 1400, venne abbandonata nel 1700 quando fu costruita la parrocchiale (dove peraltro ha traslocato la statua lignea della Madonna). All'esterno molti ricordano un affresco di San Cristoforo, che ora s'intuisce soltanto previa segnalazione di chi ha visto da bambino.
Gli affreschi
Da fuori non s'intuisce l'ampiezza della struttura ed entrando si resta stupiti di fronte all'enorme navata unica che reca qui e là ampie macchie di colore, ognuna delle quali è una sorpresa. Ciò che si è conservato non è oscurato, bensì esaltato dalle pareti candide: vedere spuntare in mezzo al pallore dei muri gli affreschi è un'emozione.
Nell'abside la Vergine viene assunta in cielo mentre angeli musicanti dalle tuniche bianche e rosse come le loro ali celebrano l'evento. La musica torna nel ritratto di un giovanotto che suona una sorta di violino. Una Pietà ricorda la delicatezza di Piero della Francesca e, in un punto purtroppo aggredito dalla muffa, spunta un Simonino da Trento, protagonista di un celebre fatto di sangue a fine Quattrocento.
La cappella di San Nicola da Tolentino, dipinta da Gian Giacomo Barbello da Crema alla fine della pestilenza, reca in sé l'eco delle brutture appena passate, sia nella scena della tentazione, in cui il santo è rappresentato come un fragile uomo in ginocchio picchiato da due diavoli, il più cattivo dei quali mostra senza vergogna le terga e la coda, sia in quella della meditazione nel deserto, con il teschio e il gatto a nove code in primo piano. C'è un che di doloroso, ma anche un tratto sadomaso e perverso.
Ci si chiede come riuscirono i sopravvissuti, dopo una piaga che aveva decimato la popolazione e le risorse, a trovare volontà e denari per realizzare l'opera. Eppure raccolsero l'anima da terra per abbellire la chiesa che avrebbe vegliato sui resti dei loro cari. Questa generosa devozione si percepisce ancora oggi nelle pitture, nel pulpito longobardo di Maviorans e negli altari dai preziosi intarsi marmorei. Come ci si sente dopo questo imprevisto e imprevedibile viaggio di scoperta? Guariti, anzi purificati. Un affettuoso grazie a Laura Metelli e alla sua profonda passione per l'arte.
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