È sempre il cielo che guida l’anima quando crea

Clementina Coppini
Riflessioni sopra l’opera di Gerolamo Savoldo esposta al Metropolitan Museum di New York dal titolo «San Matteo e l’Angelo»
«San Matteo e l’Angelo» di Gerolamo Savoldo
«San Matteo e l’Angelo» di Gerolamo Savoldo
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San Matteo, come sappiamo, è uno dei dodici apostoli e uno dei quattro evangelisti. In realtà non è più ben chiaro se il Vangelo secondo Matteo sia opera di Matteo, il quale in origine si chiamava Levi ed era un pubblicano, cioè un esattore delle tasse. Categoria piuttosto detestata a quei tempi (e non solo allora).

In pratica Levi rilevava le imposte dovute da alcuni debitori all’erario romano e poi iniziava a tormentarli per riavere i soldi con gli interessi. Avete presente le simpatiche società di recupero crediti? Ecco, Matteo, prima di essere chiamato dal Salvatore a unirsi agli apostoli, faceva questo mestiere. A Gesù basta dirgli «Seguimi» e lui non se lo fa ripetere.

Forse, a differenza di alcuni suoi colleghi, ammorbare il prossimo non lo divertiva granché. Come santo è diventato patrono di banchieri, bancari, ragionieri, contabili e simili. A Matteo, per aiutarlo a redigere la sua versione della vita del Messia, appare un Angelo, divenuto il suo simbolo ufficiale nell’iconografia religiosa. Trattasi dell’Angelo Custode, colui che giunge in soccorso nei momenti più delicati.

Il dipinto

Tale episodio viene raccontato da Gerolamo Savoldo nel 1530 circa in un dipinto esposto al Metropolitan Museum di New York. L’opera fu commissionata da Francesco II Sforza, duca di Milano, che la voleva mettere nella Zecca della città (essendo Matteo collegato suo malgrado all’economia). Caravaggio di certo l’aveva bene in mente quando si trovò, decenni dopo, a ritrarre il medesimo soggetto.

Ma torniamo all’olio su tela di Savoldo. È notte e fuori, come si vede nella scena inquadrata dalla finestrella in alto a sinistra, c’è la luna. A destra, in una stanzetta laterale, tre uomini si rilassano davanti al fuoco. In mezzo Matteo, seduto alla scrivania, ha davanti un foglio e tiene con una delle sue mani ben curate la penna e con l’altra il calamaio. Il suo sguardo è rivolto all’angelo, che lo sta spronando a continuare l’opera appena intrapresa.

La lucerna illumina la tunica rosa, perfetta con il blu violaceo dell’abito dell’angelo. Il Santo guarda nella semioscurità l’essere trascendente che gli trasmette quel qualcosa che non si può descrivere a parole, ma che è fondamentale per ogni creazione artistica (paradossalmente anche per scrivere le parole): l’ispirazione. L’argomento della tela in sostanza è questo, l’ispirazione, che ha bisogno del buio per generare la luce, necessita di lasciare per un po’ il resto del mondo in un angolo e soprattutto richiede visioni, anche mistiche. Savoldo lo sapeva.

Nella penombra spezzata dalla veste del santo spiccano tre geometriche macchie chiare: Il tondo viso dell’Angelo da una parte e la luna piena dall’altra sembrano far confluire la loro energia verso il foglio rettangolare posizionato tra loro. Ci dicono che, in qualsiasi modo tale evento si manifesti, è sempre il cielo che guida l’anima quando crea.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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