Caso Bozzoli: «C'è qua una mano di Giacomo...»
«C’è qua una mano di Giacomo, basta». «Ha spostato le telecamere, così non si vedeva nessuna traccia di chi è venuto a camminare». «Se le telecamere fossero rimaste al loro posto avremmo visto Mario».
Lo scambio di considerazioni è fatto ai primi di ottobre del 2015, poche ore dopo la sparizione nel nulla di Mario Bozzoli. A farlo sono due dipendenti della Bozzoli di Marcheno, che proprio in quelle ore divenne epicentro di un giallo ancora oggi senza soluzione.
La conversazione è emersa in Corte d’assise, nel corso del processo a carico di Giacomo Bozzoli per l’omicidio dello zio e l’occultamento del suo cadavere. Ad estrarla dal copioso fascicolo delle prove, sotto forma di intercettazione telefonica, nel corso del processo, è stato il presidente Roberto Spanò.
Oltre allo scambio di vedute al telefono sulla mano di Giacomo Bozzoli e sul suo ruolo nella vicenda, sullo sfondo del dibattimento resta il sospetto che chi ha vissuto da vicino la vicenda, sei anni dopo, abbia poca voglia di parlare, o quanto meno di dire tutto quello che sa.È stata un’udienza complessa nel corso della quale i pubblici ministeri Marco Martani e Silvio Bonfigli, oltre al presidente, hanno dovuto fare ricorso a tutte le armi a disposizione, compresa la minaccia di una denuncia per falsa testimonianza, per rinfrescare la memoria ai camionisti e agli addetti che smontarono dal turno poco prima dei minuti cruciali del mistero e che si sono alternati al banco dei testimoni.
C’è chi ha affermato di non aver chiesto niente in merito alla scomparsa del suo datore di lavoro; chi ha riferito di non aver saputo nulla della copiosa fumata rilasciata in quei minuti da uno dei forni della fonderia, e chi ha negato di aver mai saputo di rapporti tesi tra Mario Bozzoli e suo nipote Giacomo.
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