Le cose da sapere prima di andare al Carnevale di Bagolino: la guida
C’è un Carnevale in provincia di Brescia che è famoso in tutta Italia. Ha più di cinque secoli, ogni anno richiama turisti da ogni dove e la sua tradizione viene tramandata di famiglia in famiglia. Si rinnova con devozione alle usanze, mistero e anche un certo orgoglio. È il Carnevale di Bagolino, borgo di montagna che conta poco meno di quattromila abitanti, abbarbicato in Valsabbia a 800 metri sul livello del mare.
Il paese sembra a tutti gli effetti rimasto nel Medioevo, con i suoi vicoli tortuosi, i portichetti, le case addossate una sull’altra, le scalette ripide e strette. E anche la tradizione del Carnevale bagosso (così si chiama tutto ciò che si riferisce a Bagolino, come il celebre formaggio «bagòss», fatto con lo zafferano negli alpeggi della zona, nei pentoloni di rame) affonda le sue radici ben lontano nel tempo.
Le origini della tradizione
Il primo documento ufficiale in cui si nomina il Carnevale di Bagolino è datato 1518. Vi si legge che il Comune aveva disposto che la Compagnia di Laveno, venuta in paese per allietare la festa che precede la Quaresima, fosse ripagata con una forma di formaggio. All’epoca, infatti, era consuetudine scambiarsi inviti e visite tra paesi più o meno vicini. Una cosa, però, dev’essere chiarita subito. Solo a chi vive a Bagolino è consentito indossare le maschere tipiche del Carnevale bagosso e danze e canti della tradizione vengono eseguiti esclusivamente nei due giorni dell’anno della festa (il lunedì e il martedì che precedono il Mercoledì delle ceneri).
I visitatori «forestieri» sono naturalmente ben accetti, ma invitati a rispettare scrupolosamente le regole locali.
L’allegria e il comportamento scanzonato sono sempre stati una caratteristica del Carnevale valsabbino, tanto che in un primo momento non era visto di buon occhio dalla Chiesa. Nel 1694, come risulta dagli atti di una visita pastorale, il vescovo Giorgio Sigismondo Sinnersberg aveva richiamato all’ordine alcuni sacerdoti, a suo dire colpevoli «di andar vagabondando mascherati». È proprio un prete però, il curato Luigi Zenucchini, a spendersi in una strenua difesa: nel 1929 scrisse in una lettera che «il Carnevale di Bagolino è caratteristico ma, quantunque non approvato dall’autorità ecclesiastica per ovvie ragioni, non si fa del male. Vanno in maschera persino vecchi di 70 anni».
C’è da dire che questa tradizione pagana in alcune occasioni in passato si è fatta notare per qualche eccesso, sia negli scherzi troppo pesanti che nel consumo di alcol nelle osterie, ma negli ultimi anni - tra severi regolamenti e richiami del sindaco e degli organizzatori - la situazione è tornata alla normalità, seppur voglia di far festa e goliardia non manchino.
I protagonisti: maschèr e balarì
Innanzitutto bisogna premettere che a Bagolino la maschera è sacra. I costumi non si toccano, non si scambiano, non si tolgono: spesso sono tesori di famiglia che si ereditano di padre in figlio. Nel volume «Carnevale e folclore delle Alpi», Nerio Richiedei spiega: «La maschera non può essere strappata dal viso e chi si traveste deve rispettare un corretto codice di comportamento, perché con la maschera non si può litigare né commettere azioni riprovevoli».
I due ruoli contemplati dal Carnevale bagosso sono i maschèr e i balarì. I primi sono legati al mondo contadino, da cui traggono spirito e costume, mentre i secondi sono strettamente dediti alle danze. Si distinguono, oltre che dalle movenze, da come sono vestiti.
I maschèr
I maschèr, che da dopo l’Epifania sono autorizzati a uscire per strada tutti i lunedì e i giovedì, altro non sono che travestimenti ispirati ai «vecchi contadini». Il costume può essere maschile o femminile.
Il maschèr uomo indossa il «ceviöl», ovvero un completo di fustagno pesante, perlopiù di colore nero o marrone. Si compone di pantaloni al ginocchio con patta quadrata, camicia bianca senza colletto, gilè molto aperto sul davanti (detto anche «crözet») e calze bianche o ghette, allacciate di lato da una fila di bottoni.
Il costume femminile è fatto di una gonna ampia a righe («guarnèl»), in tela grezza plissettata in vita, corpetto aderente con ricami di velluto scuro, camicia bianca come l’uomo e sulle spalle un fazzoletto a fiori. Sulla testa, spesso, la «vècia» porta uno scialle di lana. Le calze sono bianche per le nubili, rosse per le sposate e viola per le anziane.
I maschèr girano per il paese a coppie o piccoli gruppi e portano ai piedi la stessa calzatura: si chiama «sgalber» ed è una scarpa di cuoio con la suola di legno chiodata, che serve per fare il tipico forte rumore sui «piaströi» (i viottoli). La camminata dei maschèr, infatti, altro non è che un’andatura oscillante e strascicata. Sulla faccia, i maschèr portano maschere moderne in gomma, da vecchio e da vecchia, che li rendono del tutto irriconoscibili. Il loro obiettivo, nei due giorni del Carnevale bagosso, è spaventare, fare scherzi e parlare in falsetto intavolando dialoghi a volte incomprensibili.
I balarì
I balarì, divisi in compagnie, si differenziano per i loro costumi preziosi ed eleganti. Tutti uomini (le donne non sono ammesse), portano calzoni al ginocchio ricamati, giacca ornata da passamanerie, una coccarda sul braccio sinistro, imponenti spalline di cotone bianco con gli alamari e a tracolla una larga fascia di seta, velluto e pizzo. Sulle mani indossano i guanti di filo, bianchi come le calze lavorate a mano, fermate al polpaccio dalla «séntä» (passamaneria tessuta al telaio) e nappe («mäsolinä») variopinte. Ognuno porta preziosi scialle ricamati con le frange che penzolano sulla schiena.
Anche il viso dei balarì è completamente nascosto da una maschera, stavolta in tela color avorio (impregnata all’interno di cera d’api) e senza alcuna espressione. Un foulard copre testa e collo e sta sotto all’elemento più caratteristico del costume: il cappello.
Il copricapo dei balarì è il vero elemento principe del rito, tanto che si dice che «è il cappello che balla». Fatto di feltro, a cupola bassa, è ricoperto da svariati metri di nastro rosso ripiegato su se stesso, arricciato e cucito dalle donne del paese. Su ogni cappello c’è poi un grande fiocco di nastri colorati «alla bersagliera», oltre ai gioielli di famiglia cuciti meticolosamente uno ad uno. Ogni anno il decoro viene disfatto per non sgualcirlo e riassemblato la volta successiva.
Se i vecchi cappelli erano adornati da specchietti e sonagli, quelli moderni sono impreziositi dagli ori di nonne, zie, fidanzate, vicine di casa. Per averli in prestito, il balarì visita le sue «poste» e promette in cambio un ballo davanti alle porte delle case delle donne che hanno devoluto il gioiello. La promessa viene naturalmente mantenuta e i preziosi vengono restituiti il Mercoledì delle ceneri.
Cosa succede nei due giorni del Carnevale
Il Carnevale bagosso inizia prima dell’alba, il lunedì alle 6.30, con la messa solenne alla chiesa parrocchiale di San Giorgio. «Durante la funzione - spiega ancora l’esperto Nerio Richiedei nel suo saggio - i cappelli con i ricchi ornamenti sono posati sugli altari laterali. Conclusa la cerimonia, tutti i ballerini escono nella piazza antistante la canonica». Qui, è il «prevosto», cioè il parroco, a scegliere la prima canzone e a dare il via alla prima danza. Sempre il sacerdote offrirà a tutti i presenti brodo di gallo come da tradizione.
Da quel momento, saranno due giorni di festa praticamente senza sosta, a colorare di voci e musica le vie del paese. Il repertorio musicale, trasmesso oralmente, è interpretato dai «sonadùr», suddivisi in piccole orchestre itineranti. Il violino detta la melodia conduttrice, ma si suonano anche chitarre, mandolini e contrabbasso (detto anche «vädèl», vitello, per la sua stazza). Anche i suonatori portano il costume locale e si riconoscono dal cappello con un solo nastro rosso.
Le compagnie dei balarì, condotte dal loro Capo che ha una cornetta d’ottone appesa al collo come richiamo, eseguono le loro danze, concedendosi una pausa ogni tanto. Si dispongono su due file parallele e ballano con le loro movenze personalissime e scherzose (che i bagossi chiamano «segnàcole»), in contrasto con i passi raffinati che rievocano le danze di corte. Ci sono anche dei balli che si fanno in cerchio; tra questi l’«Ariosa», che di solito chiude la festa il martedì sera in piazza. Tra le altre sonate, in tutto una quindicina, ci sono il «Bas de tach», «Biondina», «Francischeta», «Moleta» e «Saltambarca».
Dopo due giorni intensi di ballo e frenesia, tensioni e stanchezza si sciolgono nei saluti e negli abbracci. Un’altra grande festa è passata e, come dicono in paese, è già ora di pensare al prossimo Carnevale.
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