L'Alpino Rodolfo torna a casa dalla tomba bianca in Adamello
L’alpino Rodolfo, alle 2,30 dell’8 novembre 1916, stava portando dei viveri dal Passo Lares al Passo Cavento, sull’Adamello, quando una valanga lo aveva travolto. L’esercito aveva provveduto a inviare una lettera a casa sua, a Besana Brianza, per comunicare la brutta notizia. Mamma Prassede non si convinse mai della morte del suo bambino e per anni andò alla stazione a vedere se per caso suo figlio scendeva dal treno: lasciò questo mondo senza una risposta.
La scoperta. Su questa vicenda sono passati anni, neve, battaglie, oblio. Poi è arrivato il riscaldamento globale che ha sciolto i ghiacciai e un giorno del 2017 è passato di lì l’alpinista Massimo Chizzoni da Salò, che ha notato qualcosa di strano e ha avvisato le autorità. Tra gli altri è arrivato Franco, direttore dell’Ufficio Beni Archeologici della Provincia di Trento, che, in collaborazione con l’Onor Caduti, il commissariato che si occupa dei morti in guerra, va sui ghiacciai a raccogliere le spoglie dei soldati che la montagna a volte restituisce. Franco e i suoi collaboratori nel 2012 avevano già recuperato sul Presena due soldati austroungarici, calati insieme in un crepaccio. Sembravano abbracciati ed entrambi avevano in testa un buco provocato da pallini di shrapnel, proiettili di artiglieria che sparavano micidiali sfere di piombo. Erano due ragazzi di meno di 18 anni e le loro povere divise erano piene di tagli di pugnali nemici. Allora l’ordine tassativo era di portare via tutto ai morti in battaglia, sia del proprio che dell’altro esercito, per non lasciare alcuna informazione. Ai morti venivano tolti pure gli scarponi, perché a loro non servono e quelli dei vivi si consumano.
Le lettere. Poi è arrivato Rodolfo. Come gli altri sembrava uno straccio, il suo corpo era diventato adipocera (cioè come saponificato sotto il ghiaccio) e in quel momento non aveva un nome. Aveva del filo telefonico legato in vita (si usava per mettersi in cordata) e stava rannicchiato, forse per proteggersi o per paura o semplicemente perché i morti entrano ed escono dai ghiacciai, che li modificano e in alcuni casi li smembrano. Gli esperti lo portano in laboratorio, il bioantropologo gli fa il profilo biologico e gli archeologi cercano di separare le carte appiccicate e illeggibili trovate sul cadavere. Franco a un certo punto vede in quei fogli maciullati un timbro postale con scritto Milano. Attraverso un restauro scopre che quel grumo di carta contiene cartoline postali, una ricevuta, un certificato medico e un santino. Viene fuori un nome: Rodolfo Beretta. Chiama l’Onor Caduti, dove si stupiscono perché è una cosa molto rara trovare il nome di un disperso della Prima Guerra Mondiale. Ulteriori ricerche stabiliscono che Rodolfo apparteneva al Quinto Reggimento Alpini, Battaglione Val d’Intelvi, 244esima compagnia: nei diari di campo c’è scritto ciò che era accaduto in quella notte di novembre. Sì, è proprio Rodolfo Beretta. Ultimo di 5 figli, celibe. Ha dei pronipoti. La prima a essere contattata, Maria Rosaria Terruzzi, pochi giorni prima di ricevere la telefonata per caso aveva trovato un diploma della prima comunione del prozio e si era chiesta chi fosse. Si commuove e informa tutta la famiglia. I due ragazzini austroungarici, che restano militi ignoti, ora sono sepolti in un sacrario militare nella zona di Pejo, mentre Rodolfo, dopo aver ricevuto gli onori che gli spettavano, è tornato a Besana. Il 14 ottobre 2018 il corteo funebre è passato sotto casa sua e l’ha accompagnato fino al cimitero, dove ora riposa insieme agli altri caduti. Alla cerimonia era presente tutta la famiglia con tutto il paese, che lo ha accolto come un reduce che si rivede con gioia dopo tanto tempo. Il destino. Franco, serissimo professionista e scienziato, ha pensato a qualcosa che viene da una volontà superiore. «Mi sono chiesto il significato della parola destino. Perché due come me e Rodolfo che s’incontrano in luoghi e in tempi inaspettati fa riflettere sulla morte e sulla vita. Il 13 maggio a Trento c’era la sfilata degli alpini e abbiamo ricordato Rodolfo: guardacaso era il suo compleanno. Non è strano? L’8 agosto, il giorno dell’anniversario del suo ritrovamento, sono andato in Adamello con Massimo Chizzoni e proprio lì dove avevamo trovato Rodolfo c’era il suo cappotto, prima disperso: la montagna l’aveva portato lì esattamente un anno dopo. Bisogna sempre mantenere un metodo scientifico, ma come puoi considerare meri oggetti dei resti umani che, nel caso di Rodolfo, hanno un’identità? Conoscerlo non è stata un’esperienza solo professionale, ma umana. Gli ho tirato su il passamontagna, l’ho guardato negli occhi. Per me Rodolfo è uno di famiglia e sono felice che sia tornato a casa. Alla fine, se uno crede in qualcosa ma anche se non ci crede, non può non pensare che adesso la sua mamma è contenta».
Grazie, Beretta Rodolfo e Nicolis Franco, che aiutate tutti noi a tornare a casa.
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