Il Primo maggio del 1953 nasceva il bar Portegaia
Settant’anni, tanti quanti ne varca il Bar Caffè Portegaia di S. Apollonio, aperto il Primo maggio del 1953 da Emma e Giacomo Ghidini, a dieci passi dal campanile della parrocchiale. Da allora ha attraversato mille cambiamenti di situazioni e uomini, ma sempre gestito dalla stessa famiglia.
Oggi, nelle mani di Alessandro col valido ausilio della sorella Violetta, è affollato da una clientela in preponderanza giovanile, quasi estinta la vecchia guardia di avventori che al «Bar de la Ema» s’incontravano, discutevano, giocavano, scommettevano, suonavano e cantavano E, non di rado, concludevano piccoli e grandi affari. La nascita del Caffè Portegaia (inizialmente Bar Coffea) inanella la curiosità d’un cambiamento singolare: per poterlo aprire era stato abbattuto il piccolo «fucinetto» (fudhinitì) di Giovanni «Cadholèt», mentre la vecchia casa veniva adattata alla nuova attività.
Lo storia spicciola della comunità di Sant’Apollonio è passata da lì: Giacomo attento alla qualità dell’offerta, alle novità, primo ad installare juke-box, flipper, ricevitoria, per una clientela che annoverava artigiani, imprenditori, gente comune, avventori occasionali e, immancabili, i «dopo-messa» domenicali.
La Emma dietro al bancone con innata capacità di gestire il tutto, uomini compresi. Lì hanno trovato sovente festosa accoglienza la fisarmonica «stenta» di Burtulì di Mento (gli mancavano tre dita), quella sublime del musicista bresciano Savoldi, chitarre e mandolini di Piero del Hegretare, Chinì, Luciano, di Gepe de Pacio e Gidio che assecondavano cantatori e cori improvvisati, ben sorretti dalla Emma, dotata d’incantevole voce da mezzo soprano. Insomma la vivacità, oggi nemmeno immaginabile, d’una comunità serena, che «si voleva bene» per mutare con i decenni in quella in corsa frettolosa, meno sorridente, anzi, un po’ musona.
Il Caffè Portegaia, oltre che il più longevo della valle, è rimasto l’unico degli storici cinque aperti nel raggio di trecento metri, spariti il bar albergo Aurora, le osterie del Curhurì, Hvanera, Hergintì e Himù. Con loro svanito anche lo spirito gioioso, irripetibile d’allora, perché il tempo non ripete, ma muta. Inesorabilmente.
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