Cultura

Francesco Vezzoli, al Maxxi l'apologia dell’artista invisibile

Retrospettiva a Roma sull'artista bresciano: «Ho messo in fila il mio percorso, da Brescia a Hollywood e ritorno a Milano»
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Tu non lo vedi, ma lui c’è. Busto in stile Canova all’ingresso della mostra; travestito da Halston in fotografia; impegnato a ricamare il volto di Mario Praz mentre Iva Zanicchi canta nel video patinato. Lui c’è, perché l’artista Francesco Vezzoli si mette in scena in numerose sue opere, ma non lo vedi, perché l’uomo si nasconde proprio mentre si rappresenta.

«Sono uno specchio e rifletto gli schemi della società che mi circonda. Io di mio vorrei scomparire, vorrei fare come Verga dentro i suoi libri», dice Vezzoli, fino al 24 novembre al Maxxi di Roma con «The Trinity», una retrospettiva in tre parti che nelle prossime puntate toccherà New York (al Moma Ps1 in ottobre) e Los Angeles (al Moca, inizio 2014). E per sparire bisogna sapere prima di tutto come apparire.

L’artista bresciano, nell’allestimento romano intitolato «Galleria Vezzoli» si è circondato di uno scenario che ha l’eleganza sintetica di una casa d’appuntamenti e l’erotismo di una gioielleria. Il Maxxi non è mica un museo semplice, tende a sovrastare le opere: per raccogliere 18 anni di carriera in una novantina di lavori, Vezzoli ha plastificato i pavimenti con un rosso damascato, aggiunto boiserie e drappi che contrastano l’invadenza dell’architettura e danno un tocco ottocentesco all’ambiente.

È la prima antologica italiana, soddisfatto dell’allestimento? «Molto, e sono contento del fatto che Zaha Hadid (l’architetto che ha progettato il museo, ndr) abbia dichiarato che sia piaciuto anche a lei - risponde Vezzoli -. Per molti anni si è dibattuto di quanto fosse difficile per gli artisti questo Maxxi. Io devo dire l’ho molto amato. Se c’è un’identità forte con cui rapportarti, dai una risposta forte, sono quelle che a me vengono meglio».

A Roma viene approfondito il rapporto con l’arte, Oltreoceano si parlerà di religione (The Church of Vezzoli a N.Y.) e di grande schermo (Cinema Vezzoli a L.A.). Da golden boy dell’arte contemporanea, a 42 anni Vezzoli ha già raggiunto quella fase della carriera in cui arrivano le retrospettive e il rapporto con un pubblico non più solo specializzato, come le comitive di pensionati viste al Maxxi. Forse è per questo che le didascalie accanto alle opere tendono ad essere, per l’appunto, didascaliche. Soprattutto quando si spingono nella lettura dei significati delle opere. «Sulle etichette non prendo nessuna responsabilità, sono un po’ invasive, ma tendono a dialogare con un pubblico molto ampio. È come aggiungere i sottotitoli al mio lavoro, è la prima volta che mi capita, però un conto è la Biennale e un conto è un museo statale. Ti danno molto spazio e devi rispondere con una certa leggibilità».

Vezzoli cita e ricita e trafuga, producendo arte al quadrato, al cubo, alimentata da film, altri artisti come Bruce Nauman, cultura pop, reperti classici. Tra le prime opere all’ingresso della galleria c’è «Antique not antique», una statua in cui il suo autoritratto è incastonato sul busto in marmo di togato. Poco distante c’è un esemplare di Greed, il profumo by Vezzoli il cui (finto) spot era stato realizzato nel 2007 con (il vero) Roman Polanski alla regia e Michelle Williams in lotta con Natalie Portman (quest’ultima, dopo anni di rifiuti al mondo della pubblicità, ha in seguito firmato un contratto multimilionario con Dior: quando l’arte influenza la vita reale, per dire). Poi si passa alle lacrime, alle dive, ai volti stampati su tela e poi decorati, ai ritratti di un mondo glamour di cui non resta che la polvere. «Della lacrima in sé non mi affascina niente. Sono partito dal fatto che molte di queste attrici ricamavano. In questo senso la lacrima era una metafora dell’identità privata in contrasto con quella pubblica».

Come tutti i cinefili, Vezzoli ha un’anima necrofila. Come tutti i decadenti, la sua visione è estetizzante. Nella superficie, cerca la profondità. «A me non piacciono le dive. A me interessano le dive come fenomeno sociologico. Non sono un esteta, vorrei dire sono più un antropologo, se non sembrassi arrogante. Non mi interessa Lady Gaga di per sé, mi interessa il fenomeno sociale, psicologico e isterico che la sua comparsa genera».

In questa analisi del mondo c’è però una predilizione, innegabile, per il mondo luccicante, per i brillantini, per un’idea lussuosa della vita. Il glamour, insomma. «Mi ritengo un realista. Non è che mi piaccia la ricchezza, ma attraversiamo un momento politicamente molto reazionario dov’è tornata ad essere un valore. Ne parlo perché è il mondo che ne parla, non viceversa».

Il mondo artistico di Vezzoli è molto ancorato ai media tradizionali. I social network, ad esempio, ne restano ancora fuori. «Sono un po’ la mia ossessione del momento. Li sto studiando, ma non ho ancora trovato una chiave per lavorarci. L’arte vera nel bene o nel male si rapporta al potere e si prospetta un futuro in cui il potere sarà nelle mani di chi detiene i social media. Sanno che cosa vogliamo mangiare, ci mandano le pubblicità degli alberghi in cui vogliamo dormire o delle escort che vogliamo affittare».

Tornando al Maxxi, il percorso antologico ricorda una soffice apologia, un best of coerente e al tempo stesso innovativo nei suoi capitoli. «Ho messo metaforicamente e fisicamente in fila il mio percorso, da Brescia a Hollywood e ritorno a Milano. A partire da quell’infilata di statue chiaramente ispirate a Canova. Il primo video è con Iva Zanicchi, poi c’è Franca Valeri, Helmut Berger e si arriva a Courtney Love, Natalie Portman, Michelle Williams. Poi c’è Lady Gaga e poi mia madre. Non stavo facendo una teorizzazione, quella viene da sé. Uno li guarda e capisce il mio percorso». Anche tua madre è un oggetto di studio antropologico? «No (ride). È una domanda un po’ troppo personale. Diciamo che le voglio molto bene e basta. Ci sono molti artisti che hanno ritratto la madre, poi se lo faccio io sembra una provocazione. Ma l’arte contemporanea non è più la provocazione di un bel niente. È un’industria come la moda, il cinema, la letteratura».

E in questa industria Vezzoli si mescola, afferma la propria identità proprio mentre la nega per coronare il sogno di sparire. Come ha fatto con Brescia, città in cui è nato e cresciuto, ha studiato (all’Arnaldo), ha incontrato il suo compagno di lavoro Luca Corbetta, e da cui è fuggito, considerata in sostanza un capitolo chiuso. Per renderesi invisibile, Vezzoli ha moltiplicato la propria visibilità. «Io non mi sento istrionico. Mi sento l’uomo senza qualità. Nell’immagine in cui imito lo stilista Halston con la sigaretta mi sento ridicolissimo, perché si vede la mia goffaggine. Io non sono un istrione, per controcitare Aznavour. Il mio massimo è starmene a casa e mangiare i tortellini in brodo davanti alla tv. Poi certo il glamour l’ho conosciuto, l’ho vissuto, l’ho studiato, però non mi appartiene». Continuerà comunque a ritrarsi? «Fin quando non arrivano le rughe».

Vezzoli tra pantofole e tortellini è comunque un’autoidealizzazione borghese, per ora la sua vita da star dell’arte prevede una personale in Qatar, intitolata «Galleria delle donne piangenti», mentre prepara l’allestimento del capitolo di New York della trinità, in cui è prevista la ricostruzione di una chiesa sconsacrata nel cortile del MomaPs1. Riuscirà nell’impresa? «Ritengo che l’opera d’arte sia cercare di farlo, è il concetto che conta. Credo che ci riusciremo, sono fondamentalmente un ottimista. A volte poi è molto più difficile convincere un’attrice che spostare una chiesa».

 

 

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