Cultura

Ossessioni e slanci tra le pieghe dell’opera del Vate

Nell’80° della morte la Biblioteca di via del Senato pubblica nuovi studi su d’Annunzio
Gabriele d’Annunzio nel cortile della residenza gardesana
Gabriele d’Annunzio nel cortile della residenza gardesana
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Di recente, durante alcuni lavori nel parco del Vittoriale, è stato rinvenuto un torchio in ghisa piuttosto rovinato. Non è inverosimile si tratti del torchio fatto installare da D’Annunzio negli ultimi anni per alcune privatissime plaquettes poetiche, se non addirittura quello impiegato per stamparvi il famigerato «Diligentissime impressit», opuscoletto di soli quattro fogli stampato anonimamente in soli nove esemplari col quale il Vate aveva platealmente denunciato, in faccia all’editore Arnoldo Mondadori e al principe dei tipografi Giovanni Mardersteig, gli errori occorsi nella monumentale edizione nazionale delle proprie opere (1927-1937).

Sull’episodio, ai più poco noto, che riporta a galla l’ossessione dannunziana per i refusi, è tornato Massimo Gatta in uno dei venti contributi raccolti nel gradevolissimo e raffinato fascicolo monografico che la rivista di cultura e bibliofilia La Biblioteca di via Senato ha dedicato a D’Annunzio a 80 anni dalla morte, fascicolo che sarà presentato sabato 22 settembre alle 18 al Vittoriale nell’ambito di una serata dedicata a nuovi progetti e pubblicazioni.

Che D’Annunzio abbia influito sulla cultura e sulla società della sua epoca più di qualunque altro letterato è un dato incontestabile. Né forse esagera il direttore della rivista Gianluca Montinaro a definire gli anni fra il 1890 e il 1920 il «trentennio dannunziano». Ciò dunque giustifica, ottanta anni dopo, l’intelligente operazione culturale messa in campo da una rivista di alta divulgazione, rivolta non solo agli accademici, ma soprattutto agli italiani colti.

Sgomberato il campo dagli equivoci e dai pregiudizi alimentati da una certa aneddotica biografica, compito pienamente assolto da Giordano Bruni Guerri nel contributo di apertura, i saggi che seguono ne affrontano l’esperienza letteraria e umana anche da punti di osservazione tutt’altro che scontati. Come la rivalutazione del D’Annunzio drammaturgo, a lungo negletto se non disprezzato dagli studi accademici, condotta da Annamaria Andreoli, il soggiorno parigino del Vate (1910-1914), fra arte e avventure amorose, su cui si sofferma Giuseppe Scaraffia, e la sintonia con l’opera letteraria di Ovidio - di cui ricorre quest’anno il bimillenario della morte - affrontata da Pietro Gibellini.

Senza trascurare l’esperienza, politica ed esistenziale allo stesso tempo, di Fiume («primo e ultimo poeta al comando di uno Stato»), i rapporti con Marinetti, tra stima e insulti reciproci conditi da esplosiva fantasia lessicale, sino al riemergere, andando a ritroso, dei primi vagiti poetici di quello che all’epoca era ancora un liceale sedicenne, per quanto promettente e già «provvisto di un bel temperamento», spedito dal padre nel Real Convitto Cicognini di Prato per «intoscanirsi incorruttibilmente». Il 1879, come ricorda Mario Bernardi Guardi, è l’anno d’esordio del futuro Vate, che pubblica nella sua terra (a Chieti, presso la Tipografia Ricci) la prima raccolta di poesie, «Primo vere». Opera di un ragazzo già talentuosamente scatenato, la cui voluta sfrontatezza («Voglio l’ebrezze che prostrano l’anima e i sensi / gl’inni ribelli che fan tremare i preti, / … seni d’etère su cui passar le notti») non passò inosservata ai docenti del collegio riuniti a consiglio, che ne vietarono la lettura ai convittori. Ma il giovane Gabriele non fu espulso.

 

 

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