Nel tempo del dolore si leva la voce della poesia
Nel tempo del dolore, può accadere che si levi la voce della poesia. La cerchiamo tutti, per respirare un po’. Trovarla, è un dono. Tale è stata la mail piovuta nei giorni scorsi dalla Valcamonica. Mittente, con la discrezione che da anni conosco ed apprezzo, Giacomo Scalvini da Bienno. Autore che per anni ha praticato la dura legge del dialetto, quello «con la "h" aspirata e una sua gorga o strascicata cadenza», come fu scritto in una pubblicazione a lui dedicata dal Festival della Brescianità.
Scalvini ha un lungo percorso di poeta dialettale alle spalle. Non sapevo che scrivesse in lingua. Accenna alle ragioni per cui ha abbandonato il dialetto. Ragioni severe, immagino, le stesse per cui a suo tempo si guadagnò il marchio di qualità da Renzo Bresciani. Negli anni, poi, Scalvini ha saputo tracciare una sua via. Ha rispettato il tempo del silenzio, cercando di essere severo con se stesso. Ora, la pandemia lo stana: non solo il virus mortifero, ma soprattutto il rito rigeneratore del 27 marzo scorso, col Papa a dare la sua Benedizione "Urbi et Orbi" nella piazza San Pietro vuota e lacrimata di pioggia.
La composizione di Giacomo Scalvini si intitola «Nella piazza di Pietro» ed è divisa in due parti. La prima, apocalittica, da «Dies irae», ci fa ballare davanti le smorfie della Via Crucis del Simoni, i Trionfi della Morte che percorrono la sua valle da Clusone a Darfo.
La seconda parte si apre alla speranza, davanti alle immagini del Pontefice e nell’ascolto delle sue parole.
Ecco la poesia: «S’accumula di protervia/ la malvagia egoistica vita/ banchetta all’odore di morte,/ denuda le deboli certezze/ di pavidi omuncoli in livrea./ I vili urlano in calcoli putridi/ accumulano gaglioffi/ con bava alla bocca./ Si urla è l’ora del sangue/ è l’ora di far buia la vita./ L’incerto destino/ untore di se stesso/ serra le porte/ in attesa del giudizio./ Cerca amuleti,/ riscopre santini/ in solaio riposti/ bacia e ribacia/ in attesa dei santi. Di pietra il selciato nudo/ non uomini e passi/ nella fosca ora della morte,/ si scuote dolente./ Passi anchilosati/ fatica un vecchio ulivo/ in Cristo radicato./ Tutti nelle sue parole/ conosciamo i nostri visi,/ potenza del Risorto/ perennemente in croce./ L’acqua che batte/ monda la miseria,/ il mondo sconfitto/ ammette la disfatta./ La bianca figura/ segna la speranza/ si incista nell’aria/ in gesti di Madre».
Poteva essere un tempo di silenzio, questo del coronavirus, di raccoglimento. Non il tempo di uscire allo scoperto, ma di meditare, di attendere. Ma a convincere la sirmionese Franca Grisoni - una delle voci più alte della poesia italiana contemporanea -a scrivere, ci ha pensato la rivista «Mosaico» (che promuove la cultura italiana in Brasile) chiedendole un inedito per un numero monografico in tema di coronavirus.
Ne è nata una poesia che - stranamente per l’autrice de «La böba» - ha un titolo, ed è «Coronavirus». L’inizio trafigge come una spada, si rivolge a un interlocutore innominato, come se chi parla rispondesse a una domanda additando il cielo, e indicando il sentimento dominante: «’na Pora granda», così grande come mai l’avevamo vissuta prima.
Il dialetto, con accenti e monosillabi, batte e ribatte sul dolore vivo. E supera per espressività la lingua italiana: basti il confronto tra «brancat» e la sua traduzione in «acchiappato». S
i avverte la pena per i «tacc za nacc» (le sonorità della madrelingua amplificano il sentire). Gli accostamenti dei versi - «töcc i culur de pèl / en de ’na sener grisa» e «sensa funeral / fradei» (l’estrema solitudine e la massima vicinanza), sono cortocircuiti fulminanti, che aprono al finale: non un auspicio, ma una constatazione.
La nascita tra gli uomini di un modo nuovo di concepirsi «fratelli» come mai prima. Ecco la poesia «Coronavirus».
«Mia Lu a fame el manca fià,/ la fam de aria, el respir cürt/ l’è la sò fiöla che la me i-a dà:/ ’na Pora granda/ che la m’i-a mai ciapat/ e che la cres ma a ma che i cres/ ch’èi che El gh’à za brancat./ Vecc e picui, tacc za nacc,/ oter amó i pasarà per el föc/ che ’l ne liela za/ töcc i culur de pèl/ en de ’na sener grisa/ sensa füneral/ fradei/ come no som mai stacc/ bu de bu de pensan».
La traduzione. «Non Lui a farmi il manca fiato,/ la fame di aria, il respiro corto/ è la sua figlia che me li dà:/ una Paura grande/ che non mi aveva mai preso/ e che cresce man mano che aumentano/ quelli che Lui ha già acchiappato./ Vecchi e piccoli, tanti già andati,/ altri ancora passeranno per il fuoco/ che ci uniforma già/ ogni colore di pelle/ in una cenere grigia/ senza funerale/ fratelli/ come non siamo mai stati/ davvero capaci di pensarci».
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