Gambara al Santa Giulia, «il miglior pittore» rimasto nell'ombra
Tutta colpa di Testori, e della sua passione per il linguaggio sgrammaticato di Romanino. È anche colpa sua se negli ultimi settant’anni l’opera di Lattanzio Gambara, «il miglior pittore di Brescia» secondo Vasari, è rimasta nell’ombra. Vittima della recente cattiva fama del manierismo michelangiolesco, quella ventata di novità che da Roma e Firenze raggiunse e travolse l’Italia del nord dopo il 1540, e di cui il maestro bresciano (1530 ca.- 1574) fu tra i campioni indiscussi.
A riscattarlo, e a tentare di rilanciare gli studi sulla sua opera, la mostra «Il senso del nuovo. Lattanzio Gambara pittore manierista» che apre oggi al pubblico nel Museo di Santa Giulia, a cura di Marco Tanzi. Fulcro dell’esposizione è il «Compianto», acquistato recentemente da Fondazione Brescia Musei. Il curatore ha intercettato il dipinto di passaggio all’asta (l’attribuzione è di Beatrice Tanzi) e lo ha segnalato alla Fondazione.
L'esposizione
L’opera è esposta accanto ad altre opere di Gambara che ne tracciano il percorso artistico: gli strappi d’affresco dalle Case del Gambero di corso Palestro, ora in pinacoteca; la «Conversione di Saulo» della collezione Bper (già Ubi) e tre «Deposizioni»: la giovanile e romaniniana da collezione privata; quella da Palazzo Reale di Torino e una copia di quella di San Pietro a Po a Cremona, da palazzo Pitti. Con la pala di Brescia Musei, anche le ultime due sono novità o riscoperte: «Dell’opera torinese si era persa l’attribuzione, che riferirei al Gambara campione del michelangiolismo veneziano alla Salviati - aggiunge Tanzi -. Della copia toscana ho ricostruito la provenienza dalla chiesa pisana di Santo Stefano dei Cavalieri e l’esecuzione di Vincenzo Campi».
Gli artisti sedotti da Michelangelo
Ma la riscoperta maggiore, soprattutto per il bresciani, sarà quella di un artista che la critica ha lasciato in secondo piano. «Ed è un peccato - commenta il curatore - perché merita di stare accanto, come lo fu ai suoi tempi, a maestri come Veronese, Parmigianino, Giulio Romano. Tutti artisti che tradussero la «maniera» di Michelangelo nel linguaggio padano e veneto, ai quali Gambara guardò da giovane e con i quali rivaleggiò. Tra i suoi committenti non solo il Comune (per i perduti affreschi nel palazzo del Podestà e in Broletto ndr) e le famiglie nobili della città, i cui palazzi custodiscono gelosamente i cicli affrescati del pittore, purtroppo poco visibili. A lui si rivolsero anche i patrizi veneziani, per la facciata di Villa Contarini ad Asolo, ad esempio; ma anche istituzioni religiose, dai Benedettini di Rodengo Saiano a quelli di San Benedetto in Polirone che commissionarono tre pale a lui, tra cui la «Conversione» in mostra, e altrettante a Veronese, per un compenso praticamente equivalente; la navata del duomo di Parma è tutta opera sua».
L’auspicio del curatore è che ora «qualche giovane studioso riprenda il filo interrotto oltre 40 anni fa con l’ultima monografia firmata da Begni Redona. Gambara merita di essere riconosciuto per quello che fu e che è: uno dei grandi interpreti del michelangiolismo nel Nord Italia».
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