E se i veri matti fossimo noi?
“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.” Marcel Proust
Tutti credono che io sia matto. Tutti pensano che io abbia problemi mentali o qualche altra idiozia del genere. Non è così. Sono diverso, forse sì, diverso dal resto del mondo, ma d'altronde lo preferisco, perché io il resto del mondo lo odio. La mia diversità allora sta nel fatto di essere più attento: presto attenzione alle cose che mi circondano e memorizzo tutto. La chiamano memoria eidetica, ma per me non c’è nulla di strano: sono a mio agio nei miei comportamenti e mi dà fastidio la gente che non è come me. Di solito le persone quando guardano qualcosa per la prima volta, magari ci fanno attenzione, ma poi la perdono, perché quel qualcosa diventa nella norma, nella loro quotidianità e non l’apprezzano neanche più. Mi sembra così assurdo, triste. Persino mia mamma. Oh, quella santa donna: la amo e la rispetto, ma nemmeno lei è come me, dà per scontato tutto ciò che la circonda. Quando ho tentato di spiegarle come avrebbe dovuto vivere, mi ha detto che lei apprezza il mondo, ma ne apprezza le cose più grandi, più evidenti. Ad esempio le persone: ogni sera ringrazia Dio per avergli donato un figlio speciale come me. Io questo Dio non l’ho mai visto e non mi sembra giusto che abbia fatto un regalo così grande a mia madre, per poi sparire nel nulla, non capisco cosa ci sia da ringraziare, ci ha abbandonati. Come papà, anche lui ci ha abbandonati, ma almeno l’ho visto, so com’è, so che esiste e cosa lo caratterizza.
Ai miei compagni, a scuola, non piaccio, ma non sanno che la cosa è reciproca. Niente di personale, semplicemente odio le persone in generale: sono fatte per il 70% di… sentimenti. Odio i sentimenti, sono astratti, non tangibili, non li si può capire e le poche volte che ci riesco, sbaglio.
Alcune volte è facile. Con la mamma, da piccolo, facevo degli esercizi per allenarmi, ero bravissimo: mi mostrava fotografie di persone che ridevano, piangevano, giocavano ed io dovevo dire cosa credevo che stessero provando. Di solito felicità, tristezza, gioia erano le risposte giuste.
Un giorno però, entrai in casa, dopo essere stato in bici con la zia, salutai mamma, ma non mi rispose. Pensai non mi avesse sentito. Andai in cucina, non c’era. In sala, neppure. Salii le scale, provai in camera da letto, ma niente. Restava il bagno e mentre aprii la porta e ripetei il suo nome nuovamente, la vidi seduta sul pavimento, col sorriso, lo sguardo fisso in un punto indefinito che solo lei conosceva. Secondo quello che mi era stato insegnato, mamma in quel momento era felice. Allora mi arrabbiai. Non aveva motivo per non rispondermi: non avevo fatto nulla per cui lei avrebbe dovuto essere arrabbiata con me; non era triste, perché quando si è tristi si ha il diritto di non voler parlare con nessuno; non stava male, perché, anche quando si sta male, si può voler restare in silenzio. Quando io non le rispondo senza un motivo valido, la mamma si arrabbia, perciò sì, mi arrabbiai come faceva lei. Ma non reagì. Se ne stava ferma nella stessa posizione in cui l’avevo trovata a fissare quel dannatissimo punto che, morso dalla curiosità, volevo vedere anche io.
Mi sedetti accanto a lei e passammo il resto del pomeriggio immobili. Pensai che forse era diventata come me, forse stava ferma a guardare qualcosa per la semplice voglia di farlo, per la meraviglia della scoperta di qualcosa di nuovo, qualcosa a cui prima non aveva fatto caso. Forse stava prestando attenzione ai dettagli, come ero solito fare io, perciò non mi preoccupai.
Dalla finestra del bagno notai che fece buio e lì, sì, iniziai a preoccuparmi: non per mamma, per papà che arrivava a casa sempre prima delle ore più scure, ma quel giorno non era ancora tornato. Mi alzai dal pavimento del bagno e andai a prendere il telefono per chiamarlo. Non rispose. Riprovai. Niente, a parte la sua voce che, monotona, ripeteva “Non posso rispondere, lascia un messaggio e ti richiamerò”.
Così chiamai la zia: magari la mamma si era dimenticata di dirmi che saremmo dovuti andare a cena da lei e papà ci stava aspettando lì, probabilmente spazientito. Rispose al secondo squillo, era sempre disponibile. Le chiesi se c’era mio padre e lei negò, allora le spiegai la situazione: “Stai tranquillo, sto arrivando”. Lì per lì, non capii perché mai non avrei dovuto essere tranquillo, poi qualche giorno dopo mi spiegò che la mamma era rimasta sconvolta perché probabilmente aveva litigato molto con papà. Non seppi mai il motivo, ma da quel giorno non lo vidi più.
Egoisticamente ero triste perché questo significava che prima o poi la mamma si sarebbe ripresa da quello “stato di trance” (così lo chiamavano) e che quindi sarebbe tornata normale e non più speciale come me. Sarebbe tornata a non apprezzare le piccole cose e a provare sentimenti.
Nonostante ciò, stimo mia madre più di tutti gli altri perché capisce e rispetta il mio modo di vedere il mondo, anche se non lo condivide. Normalmente, invece, la gente mi reputa matto, puntiglioso, problematico, strano, diverso… un mostro.
Qualche giorno fa, mamma mi ha fatto un discorso, “un discorso per grandi”, l’ha chiamato. L’ha ripetuto più di una volta, sempre uguale, come se se lo fosse studiato a memoria. Lo fa quando vuole che un concetto mi resti in testa per sempre: “Mai picchiare le ragazze.” ad esempio “Lavati i denti dopo ogni pasto.” oppure “Mai prendere qualcosa che non è tuo, senza prima chiedere al proprietario.” o ancora “Non disturbare le persone che pregano.” e tanti altri.
A volte semplicemente si dimentica che mi ricordo tutto, che non ho bisogno che lo ripeta, ma va bene così: lei almeno è più sicura, lo accetto.
All’inizio mi divertivo a ripetere le frasi-slogan con lei, ma poi mi ha sgridato. Non l’ho più fatto.
Da qualche giorno, perciò, sono a conoscenza di una cosa che riguarda solo ed esclusivamente me, una cosa in più che mi caratterizza: ho la sindrome di Asperger. Cos’è? vi starete chiedendo. É esattamente il motivo per il quale io sono io. Motivo per cui tutti mi credono matto. Motivo per cui sono un ragazzo speciale, come mamma mi ripete sempre. Motivo per cui presto attenzione alle cose. Mi piace, allora. Senza l’Asperger sarei normale, comune. Non farei caso alle minime cose. Non mi ricorderei dove ho messo le chiavi, come capita a mia zia di tanto in tanto. L’Asperger allora mi piace, non potrei pensare di vivere diversamente da come sto vivendo ora. Sono fortunato.
Mamma dice di saperlo da molti anni e che ha aspettato a dirmelo, perché voleva che capissi. Non so cosa ci sia da capire; mi aveva spiegato da piccolo che io ero diverso dagli altri e che gli altri non apprezzavano le cose come me. Mi ero rattristato per loro. Poi mi aveva permesso di uscire in bici ed ero tornato felice.
A scuola c’è una nuova insegnante. Io l’ho conosciuta prima dei miei compagni perché mia mamma, d’accordo col preside, aveva preferito incontrarla di persona e si era trascinata dietro me.
Sinceramente la preferisco al professore degli anni scorsi: mi guardava esattamente come mi guardano i ragazzi e mamma dice che non va bene, dice che quelli sono sguardi di chi “alle spalle ti prende in giro”. Non ho mai capito letteralmente questa espressione, non mi piacciono i modi di dire, hanno un significato diverso rispetto a quello che le parole, prese una ad una, trasmetterebbero. Lo trovo stupido.
Tornati a casa, da quel primo incontro, mamma mi disse che la professoressa aveva lo sguardo come quello di un familiare, come uno che ti conosce da sempre e sa come comportarsi, sa cosa dire o fare, sa cosa ti piace o cosa ti dà fastidio. Io le ho detto che da due occhi non poteva capire così tanto.
Effettivamente però, non so come, mamma aveva ragione. Dopo mesi con lei, ho realizzato che non mi giudica come fanno gli altri, non mi tratta in maniera diversa solo perché ho l’Asperger. Mi ascolta e prova a capire quelle che i compagni chiamano “le mie fisse”.
Quando mamma mi ha detto della sindrome, l’ho riferito all’insegnante durante una ricreazione. Lo sapeva anche lei e mi ha chiesto come mi sentissi al riguardo. Le ho detto che ero felice. Mi ha sorriso.
Prima delle vacanze di Pasqua, invece, mi ha consigliato un esercizio per migliorarmi nel rapporto con gli altri e nell’esprimere le mie emozioni: devo scrivere, esattamente quello che ho fatto nei giorni successivi. Ho cercato di spiegarle che non vado d’accordo con i sentimenti, ma lei ha ribattuto dicendo che, come io vorrei che gli altri siano un po’ più come me, è valido anche il contrario. In pratica vuole che scenda a compromessi: tutti dovrebbero prestare attenzione ai particolari ed io dovrei provare più “empatia”. Prima però di riconoscere le emozioni degli altri, devo riconoscere le mie, scrivendo, ad esempio. Dovrebbe aiutare.
Al rientro dalle vacanze, durante un’ora di questa professoressa, la mia concentrazione era totalmente assente. O meglio, sì, ero concentrato, ma non sulla sua spiegazione. Lei se ne accorse, perché nell’intervallo mi chiese come mai, proprio io, non ero attento.
“C’è un fiore particolare fuori, non era lì prima di Pasqua e ne stavo ammirando i dettagli.” le dissi.
“Ma come puoi vederli se sei così lontano? Vai in giardino, prendilo e portalo qui, così lo guardiamo insieme.” mi rispose.
Le spiegai che non potevo strapparlo, l’avrei ucciso, rovinando i piani di Madre Natura, che avrebbe voluto sicuramente farlo vivere più a lungo.
“Allora usciamo insieme e osserviamolo senza coglierlo.” e così facemmo.
Restammo ad ammirare i suoi petali sottili, al centro gialli e bianchi, verso l’esterno blu. La sua forma circolare, con i contorni un po’ irregolari e il suo gambo verde, mingherlino, non molto lungo.
Persi un attimo la concentrazione, spostai gli occhi sull’insegnante accanto a me: stava guardando quella meraviglia davanti a sé e non si accorse che io invece ora fissavo lei. Era come me. Non aveva l’Asperger, ma sì, aveva capito cosa provavo io nel prestare attenzione ai dettagli.
Tornai anch’io, allora, a guardare quel fiore. Memorizzai anche lui. Era bellissimo.
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