Cultura

«Dopo Mimmo Paladino, la città non rinunci al contemporaneo»

Giovanna Capretti dialoga con Massimo Minini, presidente dimissionario di Fondazione Brescia Musei
Riflessioni. Massimo Minini davanti a uno «specchio»  dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor
Riflessioni. Massimo Minini davanti a uno «specchio» dell’artista anglo-indiano Anish Kapoor
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Per dare l’addio a Fondazione Brescia Musei scelse la ribalta dell’auditorium Santa Giulia, e la platea dell’inaugurazione della mostra di Tiziano, lo scorso 20 marzo. Un «colpo di teatro» che spiazzò tutti, a cui seguirono smentite e precisazioni. Lascia, non lascia, lascia dopo le elezioni...

Minini, la nuova giunta è insediata: lei ha già ufficializzato le dimissioni?

Ho voluto portare a termine il mandato, perché non sono andato sbattendo la porta. Ho già parlato col sindaco, resterò fino alla riunione del Consiglio generale e alla firma del bilancio, poi rimetterò l’incarico. Lascio principalmente per motivi di salute e perché in questi anni ho trascurato il mio lavoro di gallerista, poi perché ritengo che siano stati raggiunti gli obiettivi del nostro mandato, e penso che si debba scendere dal cavallo quando è in corsa, non quando è azzoppato...

Come ha vissuto in questi 5 anni il suo ruolo di presidente di Brescia Musei?

Qualcuno mi ha descritto come un visionario, in realtà sono un realista che ha a che fare tutti i giorni con problemi concreti, dogane, Iva... non sono un poeta col naso per aria. Il mio ruolo in Brescia Musei è stato soprattutto di rappresentanza, ma ho cercato di agire da provocatore, da pungolo in senso positivo. Ho cercato di lanciare idee, di aggiungere qualcosa a un programma che andasse oltre il «che mostra facciamo l’anno prossimo?». L’operazione Paladino, ad esempio, nata quasi per caso per «risolvere» il caso Bigio, è diventata una delle avventure più interessanti del nostro quinquennato.

Quali altri risultati, oltre Paladino?

Certamente la pinacoteca. Sia Paladino che la pinacoteca hanno portato una quota di sorpresa in città. Poi le mostre, le nostre e quelle «ministeriali» come Roma e le genti del Po, e anche Christo che ci siamo trovati come un dono piovuto da cielo. Brescia in questi anni ha avuto una grande visibilità rispetto a prima. Eccetto gli anni di Goldin, ma quelli erano anni diversi, in cui eravamo felici, ricchi e beati. Tutto quello che abbiamo fatto, lo abbiamo realizzato con gli stessi soldi di prima (2 milioni e 400mila euro l’anno, ndr), pur con più impegni sulle spalle, il Castello, l’area archeologica e la pinacoteca.

Cosa non è riuscito a fare, invece?

Quando sei fuori da quegli uffici, e l’ho fatto anch’io, pontifichi su quello che si potrebbe o dovrebbe fare; poi entri e capisci che ci sono limiti all’operare: leggi, soprintendenza, ministeri, gare, pubblicità mancate, paletti che esistono e che da fuori non vedi. Avrei voluto allargare un po’ la cerchia della partecipazione, parola che nei nostri documenti iniziali ricorreva spesso; poi quando sei dentro ti rendi conto che la partecipazione porta cento proposte e opinioni diverse, ma quando ti tocca decidere devi per forza lasciar fuori qualcuno, scontentare i tuoi interlocutori, compresi gli amici. Brescia si candida a capitale della cultura.

In che modo ci potrà arrivare?

Quello che abbiamo fatto in questi anni potrebbe portarci vicino all’obiettivo. Occorre puntare sul contemporaneo, non si può essere capitale della cultura se si guarda solo indietro. Il tema della contemporaneità è rimasto in secondo piano. Ce ne siamo occupati in modo surrettizio, con Christo, con Paladino, e con l’innominato (Kapoor, ndr). Ora che tolgo il disturbo spero che il suo progetto per la pinacoteca possa essere portato a termine. Su Kapoor si è parlato di conflitto di interessi con la sua attività di gallerista. Teoricamente il conflitto esiste, ma come può esserci conflitto se si regala qualcosa? Certo, si potrebbe dire che Minini regala un progetto ma poi si mette in testa la corona di chi ha reso possibile l’operazione. Quanto a Kapoor, le sue quotazioni non cambierebbero per un lavoro in una provincia lombarda, ma Brescia potrebbe avere risonanza come la città dove Kapoor ha lavorato in pinacoteca, come Chicago viene ricordata per il suo «fagiolo». E chissà che non si possa immaginare qualcosa in piazza, come è stato fatto con Paladino.

Kapoor in piazza Vittoria?

L’arte contemporanea deve entrare nella città, non c’è bisogno di un altro museo. Le opere di Paladino fanno parte di piazza Vittoria, la sua Stele resterà sul piedistallo, o dove altro si vorrà collocarla, per i vent’anni di prestito concesso dall’artista. Ho parlato con il Vescovo, per capire se la sua Crocifissione in Duomo vecchio potrà restare come omaggio a Paolo VI, il papa degli artisti. Anche per Kapoor, basterebbe in città una sola opera di grande impatto.

Ne ha parlato con il direttore Luigi Di Corato?

So che non sempre siete stati sulla stessa lunghezza d’onda... A Luigi Di Corato riconosco il pregio di essere un grande lavoratore, capace di grandi intuizioni. Anche su Paladino, è stato lui il primo ad immaginare la sua Stele sul piedistallo in piazza, poi io ho messo a disposizione le mie conoscenze e i miei rapporti. Se qualcosa è mancato, è stato sulla comunicazione. Io voglio libertà di parola, credo nella spettacolarizzazione che amplifica le imprese; lui da tecnico vuole portare a casa il risultato prima di dare la notizia, poi però si perde l’effetto sorpresa. Senza cedere alla società dello spettacolo, se si vogliono «fare i numeri» e coinvolgere il grande pubblico, più che un libro grigio di archeologia funzionano i «Maestri del Colore» di Fabbri editori...

Cosa farà dopo l’addio a Brescia Musei?

Tornerò a fare il gallerista. Ma se ci sarà il desiderio da parte della città di una mia collaborazione non mi tirerò indietro. Ad esempio, se ci sarà bisogno di un consulente per la collezione Romeda (il lascito a Brescia Musei da parte dell’artista franco-bresciano, ndr) sono a disposizione.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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