«Al servizio di persone e storie che mi hanno strappato il cuore»
Frutto di un approfondito lavoro di ricerca, il nuovo album dello «scrittore di canzoni» Michele Gazich, «Temuto come grido, atteso come canto», verrà presentato al pubblico bresciano nella Sala Libretti del Giornale di Brescia questo venerdì, alle 18. I posti in sala sono esauriti ma è possibile assistere in streaming alla presentazione sul nostro sito.
Il disco è incentrato sulla vicenda della deportazione verso i campi nazisti degli internati ebrei dell’ospedale psichiatrico dell’isola di San Servolo, a Venezia, avvenuta nell’ottobre 1944. Lo scorso anno, per un mese, Gazich ha soggiornato sull’isola, consultando le cartelle cliniche e scrivendo, anche di notte, le canzoni che ora ci raccontano quelle vite sfortunate.
«Anni fa avevo fondato un gruppo musicale e l’avevo battezzato "La nave dei Folli"» ricorda Gazich (bresciano dal respiro internazionale): «Le navi dei folli sono state i primi manicomi della storia: lì venivano collocati tutti i diversi. La tematica della follia e forse ancor più quella della reclusione coatta degli indesiderati, da sempre, mi hanno interessato e terrorizzato. Inoltre le tematiche ebraiche, non solo connesse con la deportazione, caratterizzano fin dalla sua fase aurorale la mia scrittura. Tutto questo per dire che su quell’isola ho sentito convergere tutti i miei temi e le mie ossessioni. Sono stato costantemente a disagio. Sentivo le urla nei corridoi la notte e ho rivisto partire le imbarcazioni con i deportati... Ma dovevo affrontare questo disagio, puntare la mia lente sui documenti, per altro ancora più orridi di quanto pensassi, e raccontare le storie di queste persone: ritrovarle. Ho provato a conoscerle».
Michele: quali aspetti delle vicende di queste persone ti hanno coinvolto di più? La cosa che amo di più di questo album è che non parla di me. Ho cercato di non proiettare la mia ombra su queste persone e di mettermi invece al loro servizio. Ognuna di loro mi ha strappato il cuore. Inaspettatamente mi ha coinvolto la figura dell’allora direttore del manicomio, che usava la cartella clinica in maniera assolutamente non clinica bensì come momento di sfogo per il suo antisemitismo. Vi scriveva raccontini satirici sugli ebrei ospiti della struttura. L’ho chiamato «Torquemada». Certamente San Servolo fu la sua Spagna.
Hai dovuto modificare qualcosa della tua musica? Ho dovuto cambiare tutto. La mia scrittura di solito si distende in periodi lunghissimi e la registrazione ha un percorso altrettanto lento e tortuoso; in questo caso ho scritto tutto in un mese e registrato in pochi giorni, dal vivo, appena tornato dall’isola. Volevo mantenere l’emozione, il turbamento, il grido accanto al sussurro. Pochi musicisti con me. Emozione nuda. Niente monumentalità, molto espressionismo.
Cosa pensi ti abbia insegnato questa esperienza? Mi ha dato consapevolezza ulteriore. Basta un attimo ed è di nuovo il 1938 (l’ anno delle leggi razziali, ndr).
C’è qualcosa che ti è rimasto nella penna e non ha trovato posto tra queste 11 canzoni? Ho scritto ciò che potevo e volevo scrivere in questa occasione. Certamente, tuttavia, l’immenso archivio di San Servolo meriterebbe altre e approfondite indagini, anche in ambito accademico. Ne ho solo intuito la complessità. Potrei scriverne per tutta la vita...
Pensi di aver modificato la tua percezione della storia del nostro Paese e degli italiani in generale? A questo riguardo, invito tutti a leggere il libro più importante sull’argomento: «I carnefici italiani», di Simon Levis Sullam (Feltrinelli). Ho avuto anche la fortuna di frequentare l’autore, a Venezia, sempre generoso nell’offrirmi spunti ulteriori e approfondimenti nel corso della lavorazione di «Temuto come grido, atteso come canto».
Perché si preferisce celebrare il mito del «bravo italiano» e si dimenticano i carnefici italiani, uomini e donne che parteciparono al genocidio degli ebrei? Ottant’anni dopo le leggi razziali e poi le deportazioni degli ebrei dall’Italia, questo libro cerca di dare risposta a domande scomode. Oggi viviamo in un momento in cui sembra che tutto il mondo sia di nuovo incanaglito, violento e razzista, o almeno così vogliono farci credere i media controllati dai guerrafondai e dalle corporation. Ma in fondo non è così: la maggior parte del mondo è piena d’amore, anche se non può più neanche farlo sapere. Non sta bene. I poeti e gli artisti, tuttavia, ci provano sempre. Per questo ogni tanto vengono trovati morti sul litorale di Ostia. Perché parlano d’amore, perché alterano la banalità del linguaggio del potere, perché disturbano i flussi monetari.
Ecco la registrazione integrale dell'incontro
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