«Dalla bolla alla realtà»: l’America vista dal campus di Berkeley

Sono da due mesi in America o poco più, forse due mesi e mezzo. Mi trovo in exchange a UC Berkeley, in California, e oggi è uscita su due giornali di San Francisco questa notizia (SFGate e Dailycal): a quattro studenti e due neolaureati internazionali è stato revocato il visto. Alcuni giorni fa sono stati avvistati alcuni agenti di ICE nel campus. Sì, loro, gli agenti che hanno il compito di «proteggere gli Stati Uniti» dagli immigrati, quelli che hanno portato, solo alcune settimane fa, alcuni studenti della Columbia University in centri di detenzione, e che sono responsabili di molteplici deportazioni.
Tra gli studenti è circolato questo messaggio non ufficiale e fuori dalla classe ho trovato questo avviso: «PRIVATE SPACE, students, staff, and faculty only». Non penso ci voglia un grande ingegno per capire perché sia stato affisso sulle porte delle aule, e questo mi fa tremendamente paura.
Al riparo
UC Berkeley, come altre università e community college della California, ha una politica che impedisce a docenti, personale e amministratori di partecipare alle attività di controllo dell’immigrazione, e che protegge gli studenti senza documenti. È una forma di protezione per tutti quei ragazzi la cui sola colpa è essere figli di genitori senza documenti, e ai quali, altrimenti, non sarebbe consentita l’istruzione.
L’idea che ci sia una sezione dedicata a cosa fare nel caso ci si imbatta in questi agenti nel campus, o il sapere che serve un cartello fuori dall’aula dove io sto facendo lezione per segnalare che quello è uno spazio privato, mi fa, ancora una volta, tremendamente paura. Oggi mi è arrivata l’ennesima mail dall’Ufficio immigrazione avvisando che sta verificando e monitorando qualsiasi cambiamento possa modificare la mia situazione di studentessa di scambio, e l’Ufficio studenti internazionali ha consigliato più e più volte di evitare viaggi fuori dal paese per lo Spring Break, la settimana scorsa.

Sui banconi dei bar sono iniziate a comparire pile di «red cards», tessere rosse che forniscono alle persone esempi riguardo a come possono esercitare i loro diritti qualora vengano fermate da agenti di polizia. Queste sono fornite dal Centro di risorse legali per immigrati (ILRC), e sono disponibili per chiunque, cittadini americani e non. L’ultima frase che si può leggere su di esse è «I choose to exercise my constitutional rights» ossia «scelgo di esercitare i miei diritti costituzionali», perché ci sono, esistono.
A una mia amica non statunitense è stato offerto un soggiorno per studiare in Italia: le hanno sconsigliato di partire, sarebbe troppo rischioso per la sua situazione. Come si fa ad arrivare a bloccare l’istruzione? A tagliare i fondi destinati alla ricerca?
Nonostante sia qui da soli due mesi, mi sembra di aver assorbito molte delle contraddizioni di questo paese: mi riesce benissimo andare all’università senza prestare attenzione alle persone che vivono per strada, riesco a ignorarle, a renderle invisibili. Ma ci sono, e sono tante.
Il mondo fuori
Vivo a 7 minuti dal campus, in 8 minuti sono seduta in aula e, nel tragitto, ogni giorno, mi imbatto in 5 o 6 senzatetto, solo in questi 500mt. Sta diventando faticoso fare finta di niente, guardare avanti, fingere che non ci siano, quando sono lì, con i loro sacchi a pelo, coperte, carrelli di vestiti, tende, pentole, scarpe spaiate. Sono nel campus, sulle panchine, sui marciapiedi, sugli autobus, in biblioteca.

Sabato sera sono andata a San Francisco in metro con un mio amico, e siamo scesi in una delle vie maggiormente frequentate durante il giorno: è stato surreale. La via era popolata da, letteralmente, zombie: c’erano solo persone sotto effetto di droga, tanti ragazzi in sedia a rotelle, tanti altri piegati in due, in pose disumane, altri che dormivano per strada, seduti, sporchi, stravolti. Ho provato così tanto malessere, impotenza e terrore che siamo tornati a casa dopo aver camminato solo per questa via.
Un’altra volta, sempre sulla metro, ho visto un ragazzo che girovagava per i vagoni sguainando un bastone come se fosse una spada. Un mio amico ha visto un’altra persona fare lo stesso con un coltello, in giro per la città, come se tutto ciò fosse normale.
Spesso arrivano mail da Warnme, un servizio universitario che serve per allertare gli studenti riguardo a situazioni spiacevoli accadute vicino al campus, come rapine o aggressioni. La prima volta che ho ricevuto una mail mi sono angosciata tantissimo mentre adesso, paradossalmente, sapere cosa succede attorno a me mi rende più tranquilla. Mentre scrivo capisco quanto tutto ciò sia parzialmente surreale, e mi chiedo se sia l’unica a pensarlo.
Una delle aule in cui faccio lezione si può aprire solo dall’interno, se arrivi tardi devi bussare. Durante i primi dieci minuti prima della lezione la professoressa mette un pezzo di legno sotto la porta, in modo che questa resti aperta e noi possiamo entrare, e lo stesso accade quando qualcuno deve andare in bagno. Per il resto del tempo è chiusa, blindata, e noi siamo dentro, protetti.
Forse, tra due mesi, mi sarò completamente abituata. Forse, tra due mesi, spero di non esserlo. Non odio il posto in cui sono, non odio l’America e non sopporto, anzi, chi odia questo paese senza averlo provato, perlomeno in parte, a vivere o a capire. Il posto in cui mi trovo è ricco di stimoli e opportunità e le persone con cui parlo e mi interfaccio molto interessanti. È un posto in cui, se hai un’idea innovativa, troverai sicuramente persone disposte a darti fiducia e mezzi per svilupparla, anche se sei giovane. I ragazzi che studiano qui sono informati, fanno sentire la loro voce e i loro diritti e anche gli insegnanti mostrano il loro sconcerto riguardo al presente.
Ovviamente so di essere in una bolla: sono nello stato storicamente più democratico d’America e, per di più, in ambiente universitario. Tutto ciò per dire che, se durante i primi giorni tutto era «like a movie», adesso mi sono resa conto di come esista un sottofondo disturbante rispetto a tutto questo reale luccichio, un qualcosa che tutti, io compresa, cerchiamo di ignorare. Ma che esiste.
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