Salvati dal Ruanda: «Abbiamo il sorriso dentro e intorno a noi»
A Castenedolo, alla ex chiesa dei Disciplini, patria di meditazioni, è lunedì sera. In una sorta di girotondo di pace, alla ricerca del bene contro il male, «risorgono» le donne e gli uomini di un eccidio, avvenuto quando, dal 7 aprile al 17 luglio 1994, in Ruanda, nel profondo di abissi disumani in prestito a millenarie guerre tribali, furono assassinate un milione di persone.
Salvezza
Trent’anni dopo, quei 41 bambini salvati e adottati dai castenedolesi e dai bresciani si muovono dalla strada all’ex chiesa dei Disciplini ben vestiti e con una buona eloquenza, pure in un nostro dialetto perfetto. Avevano tra i 4 mesi e i sei anni e vivevano nell’orfanotrofio Santa Maria a Rilima (sostenuto dalla Fondazione Tovini, Medicus Mundi e associazione Museke) quando, nell’aprile del 1994, furono strappati dalla guerra civile in Ruanda e portati a Castenedolo.
Ora, da adulti, sorridono più di noi, poiché, forse, si sorride di più se si ha pianto di più. Sono subito alla vista, pure in questa agape fraterna in cui si creano gruppetti di persone ruandesi e bresciane con medici, ragazzi dell’uscente consulta giovanile, volontari. «C’è un bel clima – spiega Francesco Annunziata, 20 anni, consigliere comunale – i nostri giovani sentono dentro queste adozioni, vogliono bene, parimenti, ai figli di Museke e ai nostri concittadini».
Nomi e storie
Con Marco, il nostro fotografo, ci muoviamo con il passo della savana: calma, non disturbiamo e non stiamo zitti, mediazione complessa. Lui si muove di più, saluta tutti, sorride più degli altri. Quanti anni avevi – chiediamo – e scrivici tutto il tuo nome che comprende la favola del bene contro il male, favola sempre dinamica, mai ferma, un giorno sotto e un giorno sopra, come accade a tutti.
«Avevo tre anni, non ricordo, c’è nebbia. Mi chiamo Musabymana Frusca Roger. Nel mio nome ci sono i nomi dei miei genitori e della mia adozione. Ho fatto tante cose, anche nel mondo della moda. Adesso lavoro con serietà e sono libero. Ci sono stati momenti duri, tutti cadono, ciò che conta è rialzarsi e ora mi sento bene, sono figlio della mia terra e della terra bresciana. Amo Castenedolo – ammette –. Sorrido spesso perché sento il sorriso dentro e intorno a me. Ringrazio don Roberto, i volontari che sono i miei amici. Non mi trovi bene?».
Riservatezza
Eccolo là, il figlio adottato di don Roberto Lombardi. Ci aveva avvertito nel pomeriggio, il nostro don, e adesso è sera piena: «Cesare è un tipo tosto, poche parole e molto studio, non sarà semplice avvicinarlo e non dire che ti mando io».
È proprio così: si muove in continuazione, si smarca e cerca di lasciarci indietro. Sta fresco. Lo anticipo preparato su di lui: tu sei laureato in Giurisprudenza e lavori? «Guarda – risponde – non sono il tipo da intervista, vai da lui che è meglio. Comunque sono laureato in Giurisprudenza e lavoro da un notaio, di più, no...». Caspita, Cesare è un leader, lunga vita e lunga pace, caro Cesare, la prossima volta ci racconterai di più.
Le telefonate
Lui lo chiameremo «caro amico», più riservato di Cesare e meno sorridente di Roger, però sereno e con il suo buon sorriso personale: «Anch’io non ricordo. Ho ascoltato Enrica Lombardi, la mitica Henriette e don Roberto, l’altro fratello Pietro, stavo nella loro casa. Per me erano amici, madri e padri di fatto. Ho saputo di quella telefonata, la prima, quando una donna, la loro amica, chiamò dal Ruanda. Era l’aprile 1994: qui è un inferno, tutti si uccidono. Partì, così, il primo grido di allarme. Infine ricordo l’ultimo avviso dal Ruanda ad Enrica, don Roberto e Pietro Lombardi, è come esserci sempre nella loro casa, come abitare in Ruanda e ascoltare la nostra salvezza nella casa di Castenedolo: siamo partiti, i bambini sono salvi e liberi, arriviamo...».
Libertà
Ai Disciplini, magistralmente, la giornalista scrittrice Anna Pozzi sta cucendo insieme le tragedie e il campo del ritorno e della pace. Alla sua sinistra, una giovane nigeriana racconta la tratta delle schiave e la sua liberazione: «Ora abbiamo creato una fondazione per accogliere le giovani della strada. Mi avevano promesso un lavoro dignitoso e mi sono trovata nell’obbligo di consumare il mio corpo sotto la minaccia della morte dei miei cari. Dovevo pagare 65mila euro per riscattare l'impossibile libertà». Adesso è libera e invita tutte al coraggio e a conoscere il loro aiuto. «Noi siamo qui e pronte ad accogliervi. Venite avanti».
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