Sokhna Sarr: «Il mio documentario sulla storia del Residence Prealpino»

I genitori della 25enne bresciana si conobbero nel complesso in cui abitarono migliaia di persone senegalesi: il suo ricordo a 15 anni dalla demolizione
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Ieri, proprio come quel 22 marzo di 15 anni fa, c’era una pioggia leggera che cadeva all’angolo tra via Canossi e traversa Prima, là dove il territorio di Brescia e quello di Bovezzo si fondono. Sokhna Sarr, 25 anni, studentessa universitaria e lavoratrice, era una bambina quel giorno in cui, con una simbolica cerimonia a suon di picconate, fu salutato dalle autorità l’inizio della fine del Residence Prealpino.

«Avrei detto fosse un po’ più in là, assicura mentre cerca di ritrovare le coordinate di quel luogo in cui è passata ancora, ma senza più fermarcisi. Eppure, lì dove ora sorgono tre ordinate palazzine Aler, si levava il complesso che tra gli anni ’80 e il 2008 fu casa per migliaia di migranti senegalesi. Il luogo in cui si sono conosciuti e innamorati i suoi genitori. La storia di Sokhna, insomma, inizia lì. Ed è già di per sé un simbolo di quella collettiva vissuta in quell’angolo di periferia. Quella che ora la 25enne si propone di raccontare in un documentario.

Il logo del Residence Prealpino - © www.giornaledibrescia.it
Il logo del Residence Prealpino - © www.giornaledibrescia.it

Il progetto sarà presentato a breve, col lancio contestuale di un crowdfunding. Ma una prima suggestione basta l’immagine di una palazzina marrone e di un logo impresso nella memoria di chi è cresciuto negli Anni ’90 tra Bovezzo e il Villaggio Prealpino, periferia nord della città: una montagna verde stilizzata con una spruzzata di neve sulla cima che si staglia su campo giallo.

Sarr si è rivolta a Michele Barcaro, regista di Bubble Production, il quale ha sposato il progetto. L’intento è ricostruire cosa fu la quotidianità della comunità senegalese che visse il Residence, attraverso interviste e testimonianze. «Oggi forse tanti neppure sanno cosa fosse il Residence. Non ce n’è più traccia» dice Sokhna che vuole salvare quella che è a tutti gli effetti una pagina della storia della immigrazione in Italia.

Partiamo dall’inizio.

«Mio papà, Ababacar, arrivò al Residence nei primi anni ’90 che non aveva 30 anni. Passò qualche tempo a Roma, poi venne a Brescia: del Prealpino già si parlava in Senegal, non si arrivava alla cieca. Qui lui aveva amici. Vi restò 6 o 7 anni. E all’inizio fece il “vù cumprà”, come si diceva allora. Poi, conobbe mia mamma Coumba (scomparsa 10 anni fa, ndr). Lei dal Senegal si era trasferita in Francia, da una sorella che importava tessuti dal nostro Paese e ne riforniva il Residence, specie uno dei (tanti) compagni di stanza di mio padre. Mia mamma si trasferì in Italia e nel ’98 si sposarono. Furono tra i fortunati a ricevere con la sanatoria del ’99 il permesso di soggiorno a tempo indeterminato, un foglio blu che papà ancora conserva».

Il logo del Residence Prealpino - © www.giornaledibrescia.it
Il logo del Residence Prealpino - © www.giornaledibrescia.it

Che ricordi ha suo padre del Residence?

«Non ama tornare a quel tempo. Quando gli ho raccontato del mio progetto, ha tagliato corto: “Lascia stare, sono cose vecchie”. Però mi ha mandato foto di allora. Lui e i suoi amici riconoscono quanto la situazione fosse insostenibile. Ma è stato un punto di riferimento per tutti, il Residence. E molti lo ricordano con orgoglio perché inserirsi in un contesto "bianco", ritrovarsi (fratelli, amici, famiglie nate qui) e costruire qualcosa non era facile. Era una comunità, capace anche di esprimere una lotta civica, cosa che spesso manca a noi giovani».

E lei, invece, cosa ne ricorda?

«Io non ci ho vissuto, ma lì ho ricevuto il mio nome (con la cerimonia del “toudou”). Poi ogni sabato era un rito andarci: ho in mente le scale strette e buie, i tubi che uscivano dal muro, l’intonaco scrostato di una sala azzurra, la stanza ricolma di ogni mercanzia di un signore che ci teneva il suo bazar, le donne sedute a vendere cibo. Per me lì erano tutti un po’ zii. E si tornava a casa dopo aver noleggiato il dvd di un film in wolof (la lingua ufficiale in Senegal)».

Cosa resta di allora?

«I rapporti tra le persone, anche se la comunità si è sfilacciata. Ma quando si parla, il Residence torna sempre fuori. Ha lasciato l’idea che da soli non si fa nulla: quella che vorrei restituire nel documentario. C’è un gruppo WhatsApp di chi visse al Residence che conta oltre 200 iscritti. Molti sono rimasti, molti sono tornati in Senegal, perché stanchi, o per ragioni economiche. Tanti sono riusciti ad avviare attività, in Italia o in Senegal, col frutto del lavoro condotto qui. Mio padre ha fatto l’operaio per una vita, ora è in pensione, fa la spola tra i due Paesi, e in Senegal sta finendo di costruirsi una casa: là mantiene 7-8 persone».

Una scena di vita quotidiana - © www.giornaledibrescia.it
Una scena di vita quotidiana - © www.giornaledibrescia.it

É un esempio per lei?

«Di resilienza, sì. Lui è partito perché non aveva scelta. Ma è stata la sua occasione. Ha avuto le sue soddisfazioni, e non lo vedo fermarsi. Lui ci ha provato e si è battuto per ciò che voleva. Ma non credo farei le sue scelte. Ho lavorato da operatrice sociale, e so che nel migrare ci sono aspetti tossici: l’idea di avere una famiglia lontana non è facile. I migranti vivono qui fisicamente, ma non emotivamente: si consumano».

E in Senegal come si trova?

«Mi sento a casa come qui. O forse non sono a casa da nessuna parte. Faccio da ponte. Mi piacerebbe passarci più tempo, anche se là sono percepita come l’occidentale di turno, benché parli bene wolof. La cosa vera è che Brescia mi piace e ci sto bene».

Parola di Sokhna, che in un sorriso lo dice convinta, con un ché di inflessione bresciana nella voce, a due passi dal fantasma del Residence Prealpino.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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