Le rughe allo specchio e il «piò» di Re Rotari

«J-è i sègn del piò / le ràpe che ciciàra / dènter nel spècc / che ’l par striàt...». Fermo al semaforo incrocio il mio stesso sguardo nello specchietto retrovisore, mentre il cd mi restituisce la voce di Daniele Gozzetti sul testo di Dario Tornago.
Tra i frutti concreti di una sempre rinnovata passione per il dialetto che anima la nostra terra c’è anche il cd «Gói de cöntàla?» che ormai da sedici tornate saluta il nuovo anno con canzoni in bresciano. L’edizione 2019 è figlia di una bella scommessa: chiedere a nostri cantautori di mettere in musica le parole di nostri poeti. Il risultato è felice. Una miniera ricca di vene liriche e linguistiche. Il pezzo di Gozzetti e Tornago si intitola «El mé ciós». Già nei primi versi trovo un regalo: il raccontare le rughe nello specchio come segni lasciati nel terreno dal piò, dall’aratro.
La parola piò in dialetto bresciano è ambivalente, nel senso che vale due. Il piò è sia l’aratro sia l’unità di misura per i campi. La stessa radice per aratro la si ritrova nelle lingue di ceppo germanico (in inglese si dice plough) e addirittura nella lingua dei longobardi: nel 643 l’editto di re Rotari parla di plom. I latini chiamavano plostrum il carro e - secondo alcuni - per estensione il pesante aratro appoggiato su ruote. Ma piò - come detto - è anche una misura: è di fatto un terzo di ettaro ed è quanto si poteva arare nei tempi antichi in una giornata.
Anche i latini chiamavano iugerum la quantità arabile in una giornata con una coppia di buoi, e il loro termine richiama il giogo. «E pó sarà / l’envèren / söl mé ciòs...». Il Gozz continua a cantare ma un clacson mi riporta alla realtà: semaforo verde, non l’avevo visto.
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