La noblesse arcaica di un impersonale
Si presenta come una sillaba apparentemente umile, due sole lettere che fanno capolino qua e là nella parlata bresciana - o meglio, in una particolare zona della nostra provincia - così rapide che quasi non te ne accorgi. Eppure rappresentano una porta che conduce lontano, nello spazio e nel tempo. Parliamo della sillaba en.
Non però della particella che traduce il partitivo italiano ne (di pagnotta ne mangio ancora una, de pagnuchìne en mànge amó giöna). Da semplice bassaiolo con quella (sia la particella sia la pagnuchìna) ho confidenza fin da bambino. Ci riferiamo piuttosto a quando la sillaba en compare nelle frasi impersonali e corrisponde all’italiano si. Il suo habitat naturale sono le sponde del Sebino, la Franciacorta, alcune plaghe dell’Ovest bresciano (e del dirimpettaio Oriente bergamasco subito di là dall’Oglio).
Compare in espressioni come en va... (noi si va...), en mangia... (noi si mangia...), en sùna... (noi si suona...) e via così. Cercarne le radici porta lontano, fino alla Francia, dove le stesse frasi suonano on y va..., on mange... Da lì si risale fino al latino tardo che utilizzava homo sia per indicare l’essere umano sia per rendere l’impersonale.
E dal provenzale l’uso era giunto fino alla formula l’om che risuona in Dante. Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia / liberamente ciò che ’l tuo dir priega... scrive nell’Inferno parlando dell’incontro con Pier delle Vigne. Ancora oggi al semplice bassaiolo che sono può capitare che se lancio al mio amico Jósep - austero ceppo iseano - l’invito ’Nóm a béer ’na ólta lui mi risponda Dài che en béf un càles. Noblesse oblige.
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