La Lega compie 40 anni: tutta la storia del Carroccio a Brescia, dall’inizio
Raccontare la Lega e i suoi 40 anni, significa raccontare anche una porzione di storia politica di Brescia. La nostra provincia è stata una roccaforte del movimento fondato da Umberto Bossi, ma ovviamente il leghismo è stato declinato in tanti modi e ha i volti e le storie di tanti militanti e rappresentanti nelle istituzioni. Non ha il volto di un leader. A Brescia non c’è mai stato un capo leghista indiscusso e questo forse rende questa storia ancora più interessante.
Come tutto iniziò
Sono passati 32 anni da quelle che possono essere considerate delle elezioni «terremoto» per il sistema politico italiano. Il 5 aprile del 1992 la Lega arrivò a Roma: quarto partito a livello nazionale alle spalle di Dc, Pci e Psi si presentò in Parlamento con una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori (nella decima Legislatura quella precedente, c’erano solo il senatore Umberto Bossi e il deputato Giuseppe Leoni). C’erano anche, ovviamente, degli eletti bresciani, per l’esattezza quattro: alla Camera Giulio Arrighini e Vito Gnutti; al Senato Luigi Roscia e Francesco Tabladini.
Per raccontare la storia della Lega e per parlare anche dell’esperienza a Brescia si potrebbe partire da qui: dal primo approdo nei palazzi del potere romano. Ma è il caso di fare un passo indietro di qualche anno, quando la Lega non aveva nemmeno una sede. «All’inizio tra il 1986 e il 1988 - racconta Arrighini deputato tra il 1992 e il 1996 - ci trovavamo a casa dei miei genitori in piazza del Duomo. A volte passava anche Bossi». Al tempo non esisteva nemmeno la Lega Nord, c’erano le leghe territoriali e addirittura la Lega Veneta vantava una presa maggiore tanto che aveva già mandato in Parlamento due rappresentanti (Tamarin e Girardi). Anche nella nostra città a ridosso degli anni Novanta i tempi erano maturi per una sede e i giornali locali titolarono «Alberto da Giussano trova a casa in Contrada del Mangano». «Sembrava proprio una sede da carbonari», ricorda ancora Arrighini.
Ma i carbonari nella tornata elettorale del maggio 1990 alle Regionali furono il secondo partito alle spalle della Democrazia cristiana ed in provincia di Brescia ottennero il 25,4% con due eletti tra cui Corrado Della Torre che in Consiglio regionale fu poi capogruppo della Lega lombarda e in quel periodo era segretario provinciale. Della Torre è un vero e proprio survivor, tuttora militante e che è sopravvissuto alle prime scissioni che di fatto hanno cancellato le prime generazioni di leghisti, quando le scelte contraddittorie e spesso autoritarie di Bossi risultavano inaccettabili politicamente. Il risultato regionale fa da pendant con quello delle Comunali: in città a Brescia i leghisti ottennero il 20% e 11 consiglieri. In questa prima fase nella Lega era vietato farsi la campagna elettorale personale, i volantini erano impersonali: Bossi aveva bandito la propaganda per i singoli candidati pena espulsione.
La fase generativa leghista stava dando i suoi frutti in termini di consenso, un movimento nuovo che stava spezzando le logiche dei partiti ormai affaticati della cosiddetta Prima Repubblica. Dimostrazione plastica fu lo stallo che si registrò proprio in Loggia dove il sindaco Boninsegna sostenuto da una coalizione Dc-Psi-Pri-Pli resta in carica per meno di un anno e nel luglio del 1991 si dimette per le tensioni interne soprattutto alla. E per la Lega si spalancano praterie elettorali: alle Comunali del 24 novembre 1991 è il primo partito con il 24,4% e 14 eletti. Nel frattempo la sede cittadina si è spostata in via X Giornate. La lunga stagione elettorale iniziata a inizio ‘90 tra Loggia e Pirellone sospinge i leghisti all’aprile del 1992 e al grande risultato delle Politiche.
I protagonisti
Seppur con la maggioranza relativa la Lega non va al governo della città, non era ancora stata introdotta l’elezione diretta del sindaco, che invece doveva avere una maggioranza in consiglio comunale e rischiava quindi di essere maggiormente in balia dei partiti. I leghisti hanno dovuto aspettare altri 17 anni per arrivare alla guida della città e a quel punto è stata un’altra generazione di militanti del Carroccio a conquistare la Loggia: con la vittoria del centrodestra il 13 aprile 2008 e l’elezione a sindaco del forzista Adriano Paroli, la Lega al 15% ha il presidente del Consiglio comunale con Simona Bordonali, e il vicesindaco Fabio Rolfi. Un anno dopo, nel giugno 2009, con Daniele Molgora la Lega arriva anche a guidare la Provincia: si tratta forse del momento di apice politico del Carroccio bresciano.
Perché a ben guardare la sfortuna, se così vogliamo chiamarla, della Lega bresciana è stata che sulla sua strada a metà anni ’90 a Brescia si è realizzato il laboratorio politico ulivista, nel 1994 la candidatura di Martinazzoli con il sostegno del Pds (Corsini fu vicesindaco), sbarrò la strada alle aspirazioni del Carroccio: Vito Gnutti al tempo Ministro dell’Industria del primo governo Berlusconi arrivò al ballottaggio ma si fermò al 43%.
E Gnutti è stato l’unico ministro leghista bresciano in questi quarant’anni di storia. Ci sono stati due sottosegretari: Daniele Molgora addirittura per 7 anni è stato sottosegretario all’Economia (nel Berlusconi II e III tra il 2001 e il 2006 e nel Berlusconi IV tra il 2008 e il 2010), Raffaele Volpi ha invece ricoperto il ruolo di viceministro alla Difesa con il Conte I, il governo gialloverde, tra il giugno 2018 e il settembre 2019.
L’assenza di un leader bresciano del Carroccio
Ma la Lega bresciana spesso è stata sottorappresentata a livello nazionale, scontando forse una competizione territoriale con i leghisti di Varese e quelli di Bergamo. Da questo punto di vista ha pagato forse l’assenza di un vero e proprio leader locale del Carroccio: a partire dall’inizio dell’avventura politica leghista vi sono state varie figure, ma mai una egemone. Lo stesso Gnutti ministro e candidato in Loggia non ha mai avuto ambizioni di capo della Lega. Ma nemmeno figure come Tabladini, Della Torre, Cè, Caparini hanno avuto una leadership indiscussa del movimento nel Bresciano. E successivamente nemmeno Rolfi che comunque era forse quello più rappresentativo della sua generazione (da Borghesi a Formentini).
La vivacità politica del Bresciano
In questo Brescia, rispetto ad altre province, ha sempre mantenuto una propria vivacità politica, proprio per la varietà di figure e pur con le logiche staliniste che hanno sempre caratterizzato il sistema di potere interno alla Lega. Da un lato vi è una motivazione di geografia politica visto che nella nostra provincia sono sempre esistite due segreterie provinciali della Lega: quella della Valcamonica e quella di Brescia (cioè la provincia meno i camuni). A questo va aggiunta pure l’estensione del territorio bresciano su cui inizialmente insistevano, fino all’introduzione del Mattarellum, differenti collegi elettorali uninominali e sulla cui suddivisione anche la Lega si basava per le candidature e da cui fatalmente scaturivano i leader territoriali. Inutile dire poi che per un esponente di un movimento etnonazionalista l’appartenenza ad un territorio è una discriminante e dunque l’eterogeneità della nostra provincia si è sempre tradotta in una Lega sostanzialmente plurale: «Uno del lago non parlava delle esigenze della Bassa, uno della Franciacorta non parlava della città».
E poi appunto c’era la Valcamonica, il feudo dei Caparini, innanzitutto del padre Bruno, amico di Umberto Bossi che passava le estati all’hotel Mirella, ma anche di Davide uomo forte della Lega è che è stato alla Camera dei Deputati dal 1996 al 2018, 5 legislature, il più longevo dei parlamentari bresciani leghisti. Da Roma è tornato a Milano in Regione Lombardia dove è stato assessore al Bilancio nella prima giunta Fontana. Oggi è un semplice consigliere regionale, semplice come lo può essere uno che è nella Lega da sempre, che ha vissuto tutte le stagioni del movimento e che si è occupato della comunicazione editoriale tra Radio Padania, Tele Padania e il quotidiano la Padania. Un po’ come quando Massimo D’Alema si descriveva come un «parlamentare normale».
Senza dimenticare che dalla Valcamonica nel 2010 venne promossa la candidatura di Renzo Bossi nelle liste provinciali di Brescia per le elezioni regionali. Con la candidatura del «Trota» - e la sua elezione al Pirellone con 12.899 preferenze, nella Lega secondo solo a Davide Boni, assessore uscente e che sarebbe diventato presidente del Consiglio regionali - si apriva l’ultimo capitolo e forse quello più tempestoso della Lega bossiana, che a livello nazionale fu toccata dagli scandali legati ai debiti del partito e della famiglia Bossi; a ruota emersero il caso dei diamanti della Tanzania e della laurea comprata in Albania proprio dal «Trota»; mentre a livello lombardo anche l’ultima Giunta Formigoni implodeva nell’autunno del 2012 travolta da scandali di corruzione. All’orizzonte si scorgeva una nuova forza politica che a distanza di vent’anni si stava facendo avanti, quasi a sancire la fine della cosiddetta Seconda Repubblica: il Movimento 5 Stelle con cui sei anni dopo la Lega avrebbe costituito il Governo del Cambiamento, l’esecutivo gialloverde, quello più populista d’Europa.
Verso il potere
Se si vuole parlare di alleanze, bisogna fare un passo indietro di vent’anni e tornare di nuovo a metà degli anni Novanta. Certe scelte sono state dirimenti per l’intera storia del movimento e fors’anche del Paese. E Brescia c’è di mezzo. La Lega, come ricorda Alessandro Cé, «era un movimento rivoluzionario, volevamo cambiare l’intera organizzazione dello Stato in chiave federalista» e nel momento in cui finisce bruscamente l’XI Legislatura, il Carroccio ha l’occasione per rinforzare ulteriormente la propria presenza a Roma. A quel punto fa irruzione sulla scena politica italiana Silvio Berlusconi che si inventa un partito e si prepara alle elezioni del 1994. Nel frattempo era cambiata anche la legge elettorale, dal proporzionale si era passati al Mattarellum e in qualche modo i partiti erano spinti a coalizzarsi. Bossi trova un accordo con Berlusconi che contemporaneamente fa un’intesa con gli ex missini di Alleanza Nazionale guidati da Fini.
Giulio Arrighini sottolinea: «Fu una campagna elettorale fatta con grande imbarazzo. Fu una sorta di alleanza basata su una pace armata che già preludeva il ribaltone con cui Bossi avrebbe fatto cadere Berlusconi. Tra l’altro Bossi era un antifascista viscerale anche per la sua estrazione quindi entrare in coalizione con i postfascisti era solo dettato da un’esigenza elettorale collegata al Mattarellum. L’accordo era che noi pensavamo al Nord e loro al Sud».
È interessante come le valutazioni su quella intesa differiscano in base al protagonista interpellato, Alessandro Cé ancora oggi si chiede cosa sarebbe successo se «invece che con Berlusconi, l’accordo fosse stato fatto con Martinazzoli. La storia sarebbe stata molto diversa. Anche se il vero errore è stato rifare l’alleanza con Berlusconi per le elezioni del 2001. La Lega è finita lì, ci siamo piegati alle logiche dell’occupazione dei posti di potere».
Questioni di punti di vista e di sensibilità: nella Lega convivevano almeno all’inizio l’anima federalista ed autonomista, quella degli imprenditori del Nord e ovviamente quella più controversa con le posizioni razziste, populiste che in questi anni sono diventate sovraniste.
La prima crisi della Lega
La prima crisi della Lega arriva dopo il 1996 quando il Carroccio decide di correre di nuovo da solo arriva al 10% e manda una pattuglia di 59 deputati (Molgora, Faustinelli, Caparini e Cé) e 27 senatori a Roma (Gnutti, Tabladini e Tirelli). A questo punto per uscire dall’angolo Bossi lancia l’idea dell’indipendentismo, e per due anni i toni sono roventi; nasce anche il Parlamento del Nord, con sede a Bagnolo San Vito in provincia di Mantova. La retorica indipendentista prosegue fino al 1998 quando in due congressi federali (a Milano a marzo e a Brescia ad ottobre) si passa dal secessionismo alla devolution scozzese alla Lega di Governo.
A Brescia intanto nel novembre 1998 si vota per il Comune e Paolo Corsini che di Martinazzoli era stato il vicesindaco batte al secondo turno un centrodestra che si era presentato diviso: la Lega aveva corso da sola candidando Cesare Galli (19,7%).
Ma soprattutto un pezzo di vertice della Lega se ne va perché all’orizzonte c’è il riavvicinamento con Forza Italia e con Berlusconi e Fini sgraditi a chi credeva davvero nel progetto autonomista. D’altronde sembra una scelta obbligata: il partito di Bossi alle Europee del 1999 ottiene il 4,5% (10% nel collegio Nord-Ovest, ma solo il 6,8% nel Nord Est, certo nel Bresciano resta al 18%) e nel 2001 alle Politiche non arriva nemmeno al 4% eleggendo parlamentari solo grazie ai collegi uninominali della Casa della Libertà. Dei tre deputati bresciani Daniele Molgora diventa sottosegretario all’Economia con Tremonti, Alessandro Cè capogruppo a Montecitorio e Davide Caparini è vicepresidente in Vigilanza Rai; mentre il senatore Tirelli è vicecapogruppo a Palazzo Madama (oltre a lui viene eletto Agoni, uno dei leader dei Cobas del latte per non perdere l’animo movimentista).
Il riavvicinamento con il centrodestra è stato strutturale: nel 2000 la Lega alle Regionali in Lombardia aveva sostenuto la candidatura di Formigoni. Un passaggio che ricorda bene Raffaele Volpi, che in quel momento era in via Bellerio agli Enti Locali insieme a Giancarlo Giorgetti: «È stato un passaggio decisivo perché siamo passati dall’opposizione alla responsabilità. Diciamo che per la Lega è iniziata una nuova fase. È stata un’intuizione di Bossi».
In sostanza inizia la stagione della Lega di governo e di protesta: da martedì a venerdì in Parlamento con il centrodestra, il fine settimana nei territori ai gazebo con i militanti invocando la Padania Libera tuonando contro Roma e Bruxelles.
Ne parla Alessandro Cé che tra il 2001 e il 2005 è stato capogruppo alla Camera. La sua è stata una parabola interessante: un dentista dalla battuta fulminante, carattere sulfureo e simpatie socialiste, prima di entrare nella Lega e compiere un’ascesa politica fino a Montecitorio. «A Bossi piacevo: mandavo a quel paese anche Berlusconi, ero funzionale. Diciamo che era un gioco delle parti tra me e Bossi». Ma il problema secondo Cé è che all’inizio degli anni Duemila la Lega cambia pelle: «Siamo diventati funzionali a Berlusconi e non siamo più riusciti a contrastare anche le scelte sbagliate che sono state fatte. Penso alla svendita del patrimonio immobiliare dello Stato. E a quel punto è finita: la Lega ha iniziato a occupare posti di potere. Fino a quel momento Bossi era stato molto attento, voleva davvero cambiare il sistema. Ma ad un certo punto anche il progetto della devolution si blocca e non ripartirà più».
Cé nel 2005 si candida alle Regionali, viene eletto e diventa assessore alla Sanità, ma poi si dimette nel 2007 per la sua contrarietà alla privatizzazione dell’emergenza-urgenza, l’Areu, se ne va senza sconti dalla Giunta e dal partito. In un’intervista del tempo dichiara: «È diventato un partito di Palazzo, autoreferenziale, che fa solo gli interessi dei poteri forti. Molto interessato ai consigli di amministrazione e poco agli interessi della gente. La Lega è nata contro lo strapotere dei partiti, ora è diventata come gli altri». Se ne va, sembra scomparso dopo essere stato accreditato di vicinanza all’Italia dei Valori, ricompare nel 2010 con Verso Nord, un movimento federalista creato insieme a Massimo Cacciari. Oggi si dice vicino ad Azione.
Nuove leve e cambio di classe dirigente a Brescia
Il suo addio alla Lega coincide in qualche modo con un cambio di classe dirigente a Brescia e quindi nella rappresentanza a Roma: dal 2005 il segretario provinciale di Brescia è Stefano Borghesi (classe ’77) cresciuto negli anni Novanta nel movimento dei Giovani Padani; un suo coetaneo, Fabio Rolfi, con la stessa trafila nei movimenti giovanili leghisti inizia la sua scalata politica come presidente della VI Circoscrizione e tra il 2003 e il 2008 è segretario cittadino. Quando la coalizione di centrodestra, che per la prima volta si presenta unita alle Comunali di Brescia, vince le elezioni allora Rolfi diventa vicesindaco, mentre Simona Bordonali è eletta presidente del Consiglio comunale. Faranno tutti e tre una scalata politica degna di nota.
Sono tutti leghisti osservanti, ma il nuovo vicesindaco di Brescia si rivelerà con il tempo più vicino a Roberto Maroni; mentre Bordonali è una salviniana doc e farà parte anche della segreteria federale pur avendo un rapporto stretto con Maroni della cui squadra di governo lombardo ha fatto parte come assessore alla Protezione civile e alla Sicurezza. Borghesi è stato sempre più defilato, ma dal 2013 siede in Parlamento: una legislatura alla Camera e due al Senato dove è stato anche presidente della Commissione Affari Costituzionali nel periodo del governo gialloverde. Rolfi diventa anche segretario provinciale dopo Borghesi e viene eletto in Regione nel 2013, rieletto nel 2018 entra in Giunta come assessore all’Agricoltura, mentre Bordonali vola a Roma eletta a Montecitorio.
Rispetto ai primi leghisti appartengono ad un partito che ha cambiato faccia e pur avendo attraversato da militanti tutte le fasi, si può dire che abbiano vissuto da protagonisti la Lega di governo, la crisi di Bossi, la politica delle scope di Maroni e poi l’affermazione salviniana che ha portato il partito dal 4% delle Politiche 2013 al 34% delle Europee 2019. E ora devono fare i conti l’arretramento dei consensi.
Un altro bresciano è protagonista nel percorso di «nazionalizzazione» della Lega, ciò che ha caratterizzato l’azione politica di Matteo Salvini. Raffaele Volpi dopo essere stato rieletto in Parlamento nel 2013 e all’indomani dell’inizio della segreteria federale di Salvini nel dicembre dello stesso anno inizia a lavorare all’ampliamento della Lega nel Sud Italia: nell’estate del 2014 il progetto viene annunciato al congresso federale di Padova e nel dicembre dello stesso anno viene formalizzata la nascita del partito Noi con Salvini di cui Volpi è vicepresidente.
«Mi sono battuto tutto il Sud è stata un’esperienza politicamente ma soprattutto umanamente incredibile»; il partito e il simbolo arrivano fino al 2018 quando alle Politiche tutto confluisce nella lista con Lega, Salvini premier (scompare dai loghi anche il colore verde).
A quel punto Volpi viene eletto alla Camera prima è sottosegretario alla Difesa e poi nel corso della Legislatura anche presidente del Copasir. Nel 2022 non viene più candidato alle Politiche e lascia il partito, che alle consultazioni del 25 settembre esce ridimensionato: i parlamentari bresciani della Lega passano dai 7 della XVIII Legislatura ai 3 attuali, ovvero Bordonali, Formentini e Borghesi. Per quanto riguarda il resto del movimento bresciano nel 2019 la Lega bresciana ha mandato a Bruxelles ben due eurodeputati grazie al 34% ottenuto alle urne: l’ex sindaco di Adro Oscar Lancini (che aveva fatto uno spezzone della legislatura precedente come subentro) e la salodiana Stefania Zambelli. Quest’ultima candidata senza successo alle Regionali del ’23 ed entrata in rotta di collisione con la segreteria federale, nell’autunno scorso ha prima lasciato il gruppo di Identità Democrazia per entrare da indipendente in quello del Ppe e poco meno di un mese dopo è entrata in Forza Italia.
Ma la sconfitta per la Lega più cocente si consuma nel maggio 2023 alle Comunali di Brescia quando Fabio Rolfi, candidato sindaco leghista (il primo dal 2003 quando a correre per la Loggia fu il professor Cesare Galli) e del centrodestra è stato battuto al primo turno dalla candidata del centrosinistra Laura Castelletti. In uno scenario italiano in cui il centrodestra è parso dominante, il fallimento all’ombra della Loggia ha forse messo in luce più le contraddizioni dell’offerta politica leghista che del candidato in sé che Salvini avrebbe voluto candidare già cinque anni prima e che appariva comunque come il più forte del centrodestra bresciano.
L’ideologia della Lega
A quarant’anni di distanza resta molto difficile inquadrare la Lega secondo un’ideologia netta. Sicuramente negli anni ’80, vi era una galassia di realtà autonomiste, Bossi ne ha poi fatto sintesi e ne ha fatto un movimento etnopopulista contro la partitocrazia, contro il potere centrale romano, ma inizialmente favorevole all’Europa come spazio politico dei popoli. Poi è iniziata la propaganda no euro e contro l’immigrazione, la retorica law&order che ha caratterizzato i programmi leghisti a partire dall’inizio degli anni Duemila. Il problema è che su molti di questi temi si era buttata Forza Italia e via via la Lega si è vista costretta a cercare uno spazio politico sempre più a destra.
Così dall’inizio della sua segreteria Salvini ha preso come modello il Rassemblement National di Marine Le Pen ed in Europa si è alleato con i partiti dell’ultradestra, tutti all’attacco dell’Unione europea, delle politiche comunitarie. Ma la cosa che qui interessa non è la svolta verde bruna del salvinismo, ma su cosa fosse la Lega a inizio anni ’90. I pareri dei protagonisti differiscono: c’è chi sostiene che avesse una forte ispirazione autonomista, chi sostiene fosse federalista e chi invece ricorda come il modello di riferimento fosse quello della Svizzera e quindi con l’obiettivo di un impianto confederale dello Stato. Se ne discuteva molto nei primi anni e se ne parlava al Parlamento del Nord dove erano rappresentati tutti i partiti della Padania.
Il lato eversivo della Lega
E c’era chi ci credeva veramente, l’autonomismo per alcuni militanti era una questione seria: nel 2011 alla vigilia delle celebrazioni del 150esimo anniversario l’allora assessore allo sport del Comune di Brescia, Massimo Bianchini, durante una riunione di maggioranza dichiarò: «Sono secessionista, sono contro l’Unità d’Italia». Poi fece marcia indietro e ritrattò con una lettera in cui negava tutto ribadendo che lui e la Lega avevano sempre appoggiato tutte le delibere a favore a delle iniziative per l’anniversario di Italia 150. Un po’ come oggi quando di fronte alla accuse di filoputinismo la Lega dichiara che l’importante è l’appoggio all’iniziative governative a sostegno dell’Ucraina, mentre Salvini dichiara che in Russia la rielezione di Putin non va messa in discussione «perché il popolo l’ha votato».
Bianchini era, forse a sua insaputa, l’epigono di un fenomeno profondo della Lega, anche se nei primi anni Novanta al fianco dell’autonomismo folklorico esisteva anche un lato oscuro, quello legato all’eversione, perché alcuni ambienti della Lega sulla questione autonomista erano pronti a passare all’azione contro lo Stato. Il caso più eclatante è stato sicuramente quello dei Serenissimi dell’occupazione del campanile di San Marco a Venezia nel 1997 con l’utilizzo di un mezzo blindato, il famigerato tanko. Guidati da Giuseppe Segato, assaltarono la torre della basilica veneziana, dove nella notte tra l’8 e il 9 maggio issarono la bandiera della Repubblica Veneta. Furono tutti arrestati nel giro di poche ore, ma diventarono un mito per una parte dei militanti della Lega, che mai prese ufficialmente le distanze da quella iniziativa. Così in pieno reducismo nel 2014 un gruppo di 24 indipendentisti tra Veneto e Brescia finiscono al centro di un’operazione dei carabinieri.
Il Giornale di Brescia li ribattezza i «Brescianissimi», anche loro avevano costruito un loro tanko con tanto di cannoncino e volevano occupare Piazza San Marco; furono tutti indagati per associazione con finalità terroristiche. Il loro leader era Giancarlo Orini che dichiarò: «Siamo quattro pellegrini, altro che terroristi. La nostra è goliardia».
Ma il tema e il legame tra eversione e autonomismo era sentito in alcuni ambienti leghisti, come ricorda Giulio Arrighini: «C’era un sentimento strisciante in parti della Lega e in alcuni territori come le nostre valli. In Veneto a metà degli anni ’90 gli indipendentisti sabotavano il segnale della Rai e entravano nei ripetitori lanciando trasmissioni pirata. Queste cose succedono quando non vengono prese sul serio le richieste dei territori e non arrivano risposte dallo Stato. Nei primissimi anni della Lega in chiave autonomista si erano avvicinati a noi anche figure dell’estrema sinistra che avevano avuto simpatie per la lotta armata».
Nello stesso movimento insomma hanno convissuto il secessionista «Bepin» Segato e il politologo Gianfranco Miglio, raffinato studioso di Hobbes e Schmitt, preside della Facoltà di Scienze Politiche della Cattolica di Milano tra il 1959 e il 1989. Un bel mix e un’eterogeneità che si traduce nelle differenti espressioni di leghismo nei territori. Basti pensare che in città a Brescia sorge, in un giardinetto nella porzione occidentale di piazza Garibaldi, un busto proprio di Miglio, voluto dall’amministrazione di centrodestra (per i leghisti non a caso di fronte ad uno dei simboli dell’Unità d’Italia). Ma è ancora più interessante sapere che a ventidue chilometri di distanza sorge una statua che ricorda Nerone eretta dall’ex sindaco di Adro e oggi parlamentare europeo leghista Oscar Lancini. La motivazione? «Nerone fece bruciare Roma». Fu lo stesso Lancini a intitolare, tra le polemiche, il polo scolastico del paese a Miglio.
Il tema immigrazione
In questa storia leghista in salsa bresciana, resta da affrontare un ultimo aspetto, uno dei pilastri dell’azione politica leghista: la linea dura contro l’immigrazione. Non è certo una novità: in un articolo comparso sulla rivista «Electoral Studies» del 1989, in cui si dava conto delle elezioni europee, l’allora Lega lombarda veniva menzionata in due righe; in un saggio lungo sei pagine, veniva definita come lista minore razzista che «ha ottenuto più voti di quelli previsti, conquistando un considerevole 8,1% in Lombardia».
Il tema dell’immigrazione è stato una costante leghista: all’inizio era il «terù», poi è diventato l’extracomunitario o il «clandestino». Si è passati dallo slogan «Lombardia Nazione, tutto il resto è meridione» a «Stop invasione», uno switch avvenuto all'inizio degli anni Duemila, ancor prima che la Lega provasse a seguire la via lepenista.
Anche a Brescia, negli anni, si sono avuti esempi di iniziative propagandistiche e scelte amministrative in linea con una posizione molto netta a livello nazionale e coerente con l’approccio escludente dell’etnopopulismo leghista. Tra gli esempi più o meno eclatanti è interessante ricordare il caso «White Christmas», che venne ripreso anche dal Guardian: nell’ottobre del 2007, a Coccaglio, la polizia locale fece dei controlli per verificare la presenza di extracomunitari senza permesso di soggiorno, quindi irregolari e da espellere. Improvvida fu la scelta del nome dell’operazione «Bianco Natale», che dava al tutto un sapore di pulizia etnica e che fece ben presto balzare Coccaglio e il suo sindaco Claretti agli onori della cronaca. A peggiorare le cose, le dichiarazioni del primo cittadino all’Ansa: «Una denominazione assolutamente casuale, a cui la polizia locale è pervenuta in modo informale e scherzoso per coincidenze cronologiche».
Anche la Giunta di centrodestra alla guida di Brescia, tra il 2008 e il 2013, realizzò un paio di colpi spettacolari su impulso leghista: il vicesindaco Rolfi aveva la delega alla Sicurezza e fece sgomberare alcuni campi abusivi, per un totale di un centinaio di sinti, per trasferirli a Birbesi di Guidizzolo, in provincia di Mantova, su un terreno acquistato da Brixia Sviluppo, società controllata dalla Loggia. Guidizzolo era guidato da un sindaco leghista e Claudio Busca, il suo assessore alla sicurezza, parlando alla Gazzetta di Mantova, domandò in maniera provocatoria: «Guidizzolo è diventato il Madagascar di Hitler?». Anche questo un riferimento non troppo fortunato. La questione si è trascinata per anni, fino a quando quel terreno è stato venduto.
Negli stessi anni, la Giunta Paroli varò il famigerato bonus bebè, che non solo venne bocciato a tutti i livelli della giustizia amministrativa dopo i ricorsi che vennero presentati, ma creò sconcerto anche in Curia. L’iniziativa voluta in primis dall’allora sindaco Paroli, ma con l’imprimatur convinto della Lega, in sostanza, si prevedeva lo stanziamento di un assegno da 1000 euro per i nati italiani nel 2008. Il vescovo Monari scrisse sulla Voce del Popolo: «Così si rende la società più frammentata, meno solidale e più insicura», con un provvedimento «brutto, ingeneroso e irriconoscente». Non finì bene e Rolfi, imparata la lezione, nella scorsa campagna elettorale ha proposto un bonus per tutti i nati.
Ultima tappa di questa rassegna sulla Lega e l’immigrazione non poteva che essere Adro, «Il paese dove il sole delle Alpi non tramonta mai», come si leggeva su una maglietta venduta anni fa in uno stand a Pontida ai bordi del «pratone» mentre era in corso il raduno leghista. In origine furono i bambini esclusi dalla mensa scolastica perché le famiglie erano morose: erano per lo più stranieri, le maestre e il preside dell’Istituto Fratelli Dandolo si autotassarono per pagare le spese. Poi comparve un benefattore, un imprenditore di Adro che coprì le spese: «Il razzismo non c’entra, si chiama solidarietà», dichiarò quando gli chiesero le ragioni del suo gesto. In realtà, Lancini è stato un florido creatore di norme anti immigrati: i bonus per i vigili della Locale che trovavano un clandestino e lo portavano in Questura, i 18 anni di residenza in paese prima di poter accedere alle case popolari e così via. Il primo cittadino di Adro si guadagnò il diritto di entrare a far parte del gruppo dei «sindaci sceriffo»; poi riempì il nuovo plesso scolastico di Soli delle Alpi, quello disegnato sul tetto doveva essere visibile anche dagli aerei che stazionavano a bassa quota sulla Franciacorta in attesa di atterrare a Orio al Serio. Fu un altro caso nazionale, alcuni soli vennero rimossi dallo stabile, ma questo assicurò a Lancini una fama politica nazionale. Rappresenta comunque un pezzo di storia della Lega e non è un caso che oggi sieda al Parlamento europeo.
Il nostro viaggio finisce a Bruxelles non casualmente, perché l’alleanza con forze di estrema destra sembra non convincere una parte del movimento, sicuramente i militanti di lunga data. In una fase di crisi dei consensi la soluzione della Lega è sempre stata, in questi 40 anni, quella di ripartire dal Nord, dai territori in cui è nata. Lo sapeva bene Roberto Maroni quando dopo l’azzeramento dei vertici bossiani tornò a parlare del Sindacato del Nord. Ora c’è chi chiede a Salvini di tornare a parlare con i movimenti federalisti ed autonomisti europei. Forse per ritrovare uno spirito e una purezza che fu ad esempio di quelli che a Brescia, a inizio anni Novanta, in una stanzetta della prima sede si sentivano un po’ carbonari e un po’ rivoluzionari.
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