La «guerra non ortodossa» della strategia della tensione
Martedì 13 febbraio c’è stato il secondo appuntamento per i Pomeriggi in San Barnaba, dedicati quest’anno a «La città ferita». Alle 18, nella sala di corso Magenta, a Brescia, Mirco Dondi, professore di Storia contemporanea e di Storia e Analisi delle Comunicazioni di Massa all’Università di Bologna, è intervenuto sul tema «La strategia della tensione». Pubblichiamo un abstract del suo intervento, che proponiamo integralmente nel video qui sotto.
Storicamente la strategia della tensione è associata agli attentati dello stragismo nero che iniziano il 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana a Milano e terminano il 4 agosto 1974 con la bomba sul treno Italicus, esplosa nel punto finale di una galleria dell’Appennino tosco emiliano. «Strategy of tension» compare per la prima volta il 14 dicembre 1969 nella pagine del settimanale britannico The Observer che, senza infingimenti, si chiede a chi possa giovare l’attentato, leggendone la riscossione dell’effetto nel vantaggio che ne possono trarre le forze moderate e conservatrici, senza ovviamente attribuire a loro la responsabilità della strage. La strategia della tensione diviene una forma di pressione psicologica sulla popolazione per sedarne gli animi rivendicativi e per spingere verso un desiderio di ordine.
Nell’autunno 1969 le lotte sindacali si traducono in importanti aumenti salariali e, di fatto, in una forma di redistribuzione della ricchezza che proviene dal basso saltando la mediazione parlamentare. Tutti gli attentati terroristici servono a spostare gli equilibri politici, ma con la strategia della tensione si aggiunge l’ulteriore pressione della stampa. Soffia sugli eventi anche un irresponsabile comunicato del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat il quale condanna gli atti di violenza avvenuti nel corso delle precedenti manifestazioni, quasi a metterli in relazione con l’attentato, indirizzando ai magistrati un monito a non lasciare nulla di impunito, a cominciare dal pregresso dei mesi precedenti.
Poi, dopo Piazza Fontana, c’è l’indagine pilotata che mira a funzionare come elemento persuasivo diluito nel tempo con l’immediata individuazione di un colpevole già designato, l’anarchico Pietro Valpreda, subito trasformato in mostro nelle prime pagine dei giornali. La strategia della tensione sortisce da un meccanismo di guerra non ortodossa concepito quattro anni prima nel convegno romano dell’Istituto Pollio, paravento del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, al quale partecipano uomini attivi nella strategia della tensione, su tutti l’agente del Sid Guido Giannettini.
In quel convegno ci sono i più alti esponenti di Ordine Nuovo (l’organizzazione di estrema destra implicata nelle stragi di Piazza Fontana, della Questura di Milano e di Brescia) e i giornalisti legati al mondo della destra parafascista che saranno chiamati a soffiare sul fuoco acceso dall’esplosione. Ne è riprova l’inchiesta giornalistica di Danilo Maestosi (Il Tempo e Gente) che ha irrorato nei primi tempi la pista rossa, assecondata dal Corriere della Sera, che, ben servito dalle cancellerie del tribunale, è stato grado di anticipare i primi verbali di interrogatorio, per non parlare delle invocazioni allo stato di emergenza (obiettivo degli ordinovisti) apparse sulle pagine de Il Tempo.
La strategia della tensione si esplica, con forme diverse, anche in altri momenti: i disordini di Reggio Calabria nell’estate del ’70, con la strage dimenticata di Gioia Tauro, e, nel maggio 1972, con la strage di Peteano. Sono tutti episodi che rendono l’Italia, agli occhi dell’ambasciata britannica e in parte anche di quella francese, un Paese turbolento quando non tenebroso in alcuni suoi affari, con un atteggiamento non pienamente convincente anche da parte della Dc, partito non immune, in alcuni suoi elementi, da manovre di strategia della tensione, come rivela Aldo Moro nel suo Memoriale. Come effetto prolungato nel tempo, la strategia delle tensione inasprisce le tensioni nel Paese. La democrazia sarà salvata dalla coscienza civile dei cittadini. Le immense partecipazioni ai funerali delle vittime sono una testimonianza del rifiuto a cadere nelle provocazioni finalizzate a imboccare derive autoritarie.
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