La fame del Folengo che si mangia i sassi
Se il mare fosse tòccio (larillalà) e i monti de polenta... Torniamo a parlare - brescianamente - di pietre. Già la parola sass (legata chiaramente all’italiano sasso e al latino saxum) porta dentro di sé la radice sek (l’irrinunciabile Dizionario etimologico di Giacomo Devoto ci ricorda che vuol dire «tagliare» e che sta alla base anche dei termini italiani segare e settore).
Il sass è quindi un frammento, un pezzetto. Nella Bassa dei miei nonni i piccoli sassi erano detti mòrs e la fionda il tiramòrs. Il termine mòrs rimanda - esattamente come il morceau francese - al mordere nel senso di ridurre a pezzettini. Lo stesso che accade anche in inglese, dove bit (pezzetto) è legato a to bite (mordere).
Cosa parla qui? È forse la fame antica dei nostri vecchi? È forse una fame che ti mangeresti i sassi? Il dubbio resta. Alimentato anche dal fatto che in alta Valcamonica ricorre il termine gàna, che definisce anzitutto la pietraia morenica trascinata a valle e disegnata da moto millenario dei ghiacciai. La radice dà vita ad esempio al nome del ghiacciaio del Pisgana, nel gruppo dell’Adamello. Ma la gàna è anche, nel vocabolario degli altocamuni, la polenta. Quella polenta densa che negli alpeggi veniva cotta e poi rovesciata dal paröl nel taér.
«Enpròna la gàna!» («Rovescia la polenta!») è il comando che risuona ancor’oggi nelle baite. Come non cogliere qui l’eco maccheronic del Baldus (1517) di Teofilo Folengo? Quando favoleggia di «Alpi fatte di formaggio tenero, duro, mezzo stagionato» e di «fiumi di brodo, che formano un lago di zuppa, un oceano di guazzetto». Se il mare fosse tòccio (larillalà) e i monti de polenta... (2 - fine)
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