L’esploratore Ducoli: «Tra ghiacci e tiri di corda mi sento vivo»

A ciascuno i suoi sogni, a qualcuno la possibilità di realizzarli, dalle montagne di casa della Valle Camonica fino agli estremi confini del mondo.
I sogni degli alpinisti accarezzano i luoghi dai quali rifuggono quelli delle persone che non frequentano una delle dimensioni più arcigne del pianeta, e prendono talvolta forma sulle montagne più lontane, lungo le pareti più difficili, custodi di avventure passate alla storia e terreno di sfide attuali.
Luca Ducoli, giovane alpinista di Breno, ha caricato il suo zaino di aspirazioni e di attrezzature e l’ha portato fino alla Patagonia, agli estremi confini del mondo. Terra inospitale e battuta dal vento, carica di misteri, meta di vagabondi e di esploratori, la Patagonia regala spazi immensi disabitati dagli uomini, ma abitati da incubi e sogni, soprattutto quelli degli alpinisti.
É qui che Ducoli ha potuto realizzare poche settimane fa una nuova fondamentale e indimenticabile tappa del suo itinerario umano e verticale. L’opportunità è stata offerta dal percorso di formazione organizzato su scala nazionale nell’ambito del progetto «Eagle Team» del Club Alpino Italiano. Un gruppo selezionato di sei giovani partecipanti ha avuto la possibilità di partire per una spedizione alpinistica in Patagonia, che ha visto Ducoli indirizzarsi con la sua tutor, Silvia Loreggian, verso il gruppo del Fitz Roy.
«La Patagonia è una vasta regione dell’America del sud divisa tra il Cile e l’Argentina», ha raccontato Ducoli al rientro, «e a renderla famosa sono anche le montagne che si innalzano dalle pianure dalla pampa e disegnano un paesaggio maestoso, costruendo una delle viste più belle del pianeta».

Il Fitz Roy è in assoluto una delle più affascinanti, ha la forma di una piramide rocciosa perfetta che si scorge da molto lontano. Si colloca sul margine orientale della cordigliera e si eleva in una zona in gran parte costituita da rocce intrusive tonalitiche, le stesse che affiorano nel gruppo dell’Adamello.
Così Ducoli: «Le montagne delle catene principali sono rappresentate da immensi monoliti che svettano verso il cielo, molto spesso coronati da imponenti cumuli di neve e ghiaccio modellati dal vento. In Patagonia c’è davvero tanto da imparare, tanto da camminare e tanto da scalare. La cosa che manca più di tutte è il bel tempo, infatti nel nostro mese di permanenza i giorni di meteo favorevole in montagna sono stati solo cinque».
Con quali propositi siete partiti? «Il piano originale era quello di scalare il Fitz Roy lungo il pilastro Goretta (salito in solitaria dall’alpinista vicentino Renato Casarotto nel 1979 e dedicato alla moglie Goretta, ndr), ma abbiamo dovuto ripiegare a causa del troppo ghiaccio in parete. Il pilastro si poteva probabilmente salire, ma proseguire verso la cima del Fitz Roy sarebbe stato impossibile».
Avete quindi dovuto cambiare meta... «Abbiamo fissato come nuovo obiettivo la via Potter-Davis sull’Aguja Poincenot, ma le fessure erano intasate dal ghiaccio e le cenge piene di neve, così abbiamo dovuto rinunciare. La mattina successiva abbiamo messo la sveglia alle 3 per affrontare la via Whillans–Cochrane, che si sviluppa per 600 metri tra le pareti est e sud della stessa montagna. Non è stato facile affrontare i tiri di corda su roccia della parte alta con i ramponi, ma quando ho raggiunto la cima ho ammirato il Cerro Torre e il ghiacciaio dello Hielo Continental, e mi sono sentito vivo come poche altre volte».

Un momento di estasi... «Sì, soltanto il pensiero di una lunga discesa non priva di pericoli mi ha fatto staccare da quella vista meravigliosa. Il rientro fortunatamente è andato liscio, e a mezzanotte del giorno stesso siamo arrivati nel paese di El Chalten, distrutti ma felici per questa fantastica avventura».
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