Un bresciano a Kyoto custodisce e tramanda i saperi del teatro noh

Galeotto un film di Akira Kurosawa: quel «Trono di sangue» che ambienta il Macbeth fra i Samurai. Così il bresciano Diego Pellecchia, all’epoca studente di lingue straniere all’Università di Verona e oggi 45enne docente alla Kyoto Sangyo University, è stato incantato dai riti e dalle maschere del noh, teatro classico giapponese che combina poesia, canto, musica, danza, costumi sontuosi e maschere, appunto.
Il teatro noh
«Il noh ha una storia che risale al XIV secolo e si basa su regole precise e codificate. Il ritmo è lento, la narrazione è più evocata che raccontata e le maschere non riducono l’espressività, ma anzi la esaltano, con l’attore che è chiamato a trasmettere le emozioni attraverso movimenti misurati e dettagli quasi impercettibili» spiega Pellecchia, che oltre a insegnare è anche co-autore di due importanti volumi sul tema di recente pubblicazione.
Non solo. È anche un attore di noh e in questi anni ha calcato gli iconici palchi in cipresso interpretando il ruolo principale in due produzioni di rilievo: «Kiyotsune» nel 2013 e «Funa Benkei» nel 2024.
Il suo percorso
Il percorso per arrivarci è stato lungo quanto affascinante e l’ha portato anche a Londra prima dell’approdo definitivo in Oriente. Alla folgorazione cinematografica, infatti, è seguito l’incontro con Monique Arnaud, istruttrice di noh residente a Milano. «All’inizio volevo solo farle qualche domanda – ricorda –, ma in poco tempo mi sono ritrovato a partecipare attivamente. È stata un’esperienza che mi ha preso sempre di più, fino a diventare una vera passione che mi ha spinto a studiare e praticare il noh in prima persona».
Così Pellecchia, originario di Flero e in passato molto attivo nella scena musicale indie bresciana, si è addentrato sempre più in una pratica che ricorda il teatro greco antico («entrambi utilizzano maschere, hanno una forte componente corale e sono intrisi di una dimensione rituale»), ma la cui «essenzialità e minimalismo lo avvicinano a certe estetiche del teatro contemporaneo sperimentale».
Rigore
Un’impresa non da poco, per un occidentale. «L’apprendimento del noh – conferma – è estremamente rigoroso e richiede anni di dedizione. Uno degli ostacoli maggiori che ho incontrato è stato il superamento delle barriere culturali e linguistiche: la trasmissione avviene spesso in modo implicito, attraverso l’osservazione e la ripetizione, senza spiegazioni verbali dettagliate. Tuttavia proprio questo metodo, così diverso dal nostro approccio occidentale, mi ha affascinato: il processo di apprendimento è immersivo e porta a una comprensione profonda che va oltre il semplice studio teorico».
Provvidenziale per coltivare il suo crescente interesse l’approdo alla Royal Holloway, University of London, dove Pellecchia ha conseguito un dottorato in studi teatrali e dove, grazie a un assegno di ricerca, ha potuto approfondire lo studio e la pratica del noh, insieme a quello della lingua giapponese. «I contributi economici per i viaggi – aggiunge – mi hanno consentito di continuare a studiare con i miei maestri in Giappone e a immergermi sempre di più nella pratica di quest’arte di nicchia, ma dal grandissimo fascino. Le sue storie sono tratte dalla letteratura classica e mettono in scena divinità, demoni, guerrieri, fantasmi, dame di corte, ma anche contadini, pescatori o cacciatori. Più che narrare storie articolate, il noh dipinge emozioni e stati d’animo, evocando temi che rimangono comprensibili e toccanti anche a distanza di secoli e al di là delle differenze culturali».
Gap culturale
Differenze culturali che, però, possono costituire un ostacolo per un occidentale, pur appassionato e intenzionato a carpire i segreti di quest’arte secolare. «Il gap culturale è inevitabile – conferma il bresciano –, soprattutto all’inizio. Il noh segue regole precise ed è spesso trasmesso all’interno delle famiglie, rendendo l’accesso agli esterni più complesso. Allo stesso tempo, ho trovato grande apertura nei miei maestri e, con il tempo, ho imparato a orientarmi meglio in questo ambiente. Sicuramente, per un occidentale ci sono ostacoli da superare, ma alla fine ciò che conta sono l’impegno e la passione, e questo viene sempre riconosciuto».

E con il tempo, la pratica e la costanza, le soddisfazioni per il bresciano sono arrivate: «Uno dei traguardi più significativi è stato poter interpretare ruoli principali in produzioni di rilievo, come Kiyotsune nel 2013 e Funa Benkei nel 2024. Inoltre, il mio lavoro di ricerca e insegnamento mi ha permesso di contribuire alla diffusione del noh a livello internazionale. Nel 2025 sono stati pubblicati due libri importanti, «A Companion to Noh and Kyogen Theatre» (Brill), di cui sono uno dei curatori e uno degli autori, e «Noh: Classical Japanese Dance-drama (Methuen Drama)», di cui sono co-autore. Infine, nel 2023 ho fondato Discover Noh in Kyoto, un’iniziativa dedicata alla promozione del noh attraverso il turismo culturale, offrendo esperienze immersive per far conoscere questa arte a un pubblico più ampio».
La missione
Quasi una mission, quella del professor Pellecchia, che si è fatto custode di un’arte che certi giovanissimi giapponesi snobbano, ma che è in grado di catturare col suo fascino l’immaginario di moltissimi occidentali, guadagnando con il tempo nuovi appassionati. «L’interesse per il noh in Occidente è in crescita – conferma –, sebbene rimanga una forma d’arte di nicchia. Molti sono affascinati dalla sua estetica e dalla sua filosofia, ma non sempre è facile avvicinarsi a uno stile di performance così lontano dalle convenzioni teatrali occidentali. Il nostro lavoro all’International Noh Institute è proprio quello di rendere il noh più accessibile, per esempio organizzando corsi di canto, danza e scultura di maschere, tenuti in inglese». Così futuro di di una tradizione antica passa (anche) dalla passione di un bresciano in Giappone.
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