Che effetto fa Ghali sui ragazzi di seconda generazione a Brescia
«Lasciatemi cantare. Perché ne sono fiero. Io sono un italiano. Un italiano vero». Una mano sul petto, lo sguardo commosso. Un italo-tunisino che calca uno dei palchi più importanti d’Italia. Porta un pezzo di storia, la canzone di Toto Cutugno e lo fa partendo dalla sua lingua madre, l’arabo. Un medley simbolo di integrazione musicale e culturale. Perché lo ha fatto? Per un’Italia più multietnica.
Con queste strofe il giovane rapper Ghali ha scosso cuori e animi di tanti ragazzi di seconda generazione. Un tema più attuale che mai, quello della cittadinanza, e molto sentito. Per qualcuno quello del cantante è stato «un atto di grande coraggio», per altri «un momento di identificazione e un modo di non sentirsi soli». Voci dal Bresciano tra quelle dei tanti giovanissimi toccati da vicino dalla questione giunta alla ribalta dell’Ariston.
Le reazioni
Ehetnesh Biasca, 27 anni, ha origini etiopi. «Quello della cittadinanza è un tema spesso dato per scontato - dice -. Siamo circondati da giovani di seconda e terza generazione, figli di unione tra nazionalità diverse. Credo sia giusto, quindi, che si utilizzino tutti i mezzi a disposizione per sensibilizzare sulla questione cittadinanza - continua -. Ha, quindi, per me grande valore la performance di Ghali, che si è servito di un palcoscenico così prestigioso per portare all’attenzione del pubblico un argomento attuale». Ehetnesh vive a Brescia e lavora con ragazzi di origini straniere in diverse associazioni multietniche. Per lei «non può essere una colpa portare nel proprio sangue colori e sapori di altre tradizioni».
Anche Nyonce Berthol, la pensa così. «Purtroppo oggi non basta nascere in un Paese per esserne cittadino. Bisogna crescerci, conoscerne la lingua, condividerne i valori e le norme. Ma a volte neppure questo è sufficiente. Molti di noi non hanno scelto di lasciare la propria terra. Nella maggior parte dei casi, sono stati i nostri genitori a decidere per noi. Ci siamo ritrovati così in un posto nuovo che, però, è diventato casa».
Berthol è originario del Camerun ed è cresciuto a Ghedi. Racconta così il conflitto identitario: «Passiamo più tempo in Italia che nelle nostre terre native. Abbiamo costruito amicizie, relazioni d’amore qui. Spesso, ci sentiamo più a disagio nel Paese d’origine perché ci vedono, là, come stranieri».
«Per me, Ghali ha dato la miglior risposta al contesto politico attuale - dice Izham Zulqarnan, bresciano originario del Pakistan. «Quando ho visto l’esibizione, è stato un colpo al cuore. Mi ha preso, in tutti i sensi. Oltre a essere un artista che apprezzo musicalmente, ho grande stima per i messaggi che porta nelle sue canzoni - spiega -. Il suo non è stato solo un portare alla luce un tema, che sappiamo bene essere delicato, ma è stato anche un atto d’identificazione per molti immigrati. Siamo stati riconosciuti e ascoltati. E questo è stato emozionante».
Philippe Jacquart ha origini italo-francesi. Vive a Brescia e frequenta Ingegneria al Politecnico di Milano. «In Italia la politica è, a volte, in ritardo rispetto ai cambiamenti della società. Quindi è utile che un artista di spessore, come Ghali, porti sul palco della musica italiana un tema simile. Molte persone si sono riconosciute in questa manifestazione di italianità - racconta -. Certo, il concetto può essere superato, oggi. Viviamo in un mondo globalizzato e dovrebbe essere la normalità, il convivere di identità diverse. Tuttavia, comprendo l’esigenza di sentirsi parte integrante di una collettività».
G. D. – sua la scelta di essere menzionata solo con le iniziali - invece, non vede futuro in Italia. Originaria della Serbia, vive a Montichiari. «Purtroppo, ad oggi non sento ancora di essere accettata appieno dalla comunità italiana - spiega -. Mi percepisco inadeguata di fronte a persone che mi fanno sentire di continuo diversa e giudicata. Il futuro qui, in Italia, mi fa molta paura. Non vedo un modo per costruirmene uno. Sono grata a tutto ciò che questa terra mi ha dato, ma un domani vorrei tornare nel mio Paese».
Altri sguardi
Per Umair Khawaja, invece, essere italiani è un pregio e un difetto. «Sin da piccolo, ho sempre cercato di integrarmi tra i miei compagni. Ho vissuto diversi episodi di razzismo e quindi è nato, in me, il desiderio di farmi accettare, anche a costo di negare le mie origini pakistane - confessa -. Ho iniziato a vestire e a pensare come gli altri. Quando si parlava male dell’immigrato, spesso me ne stavo zitto, per paura di non essere accettato. È stata dura, ma l’ho superata - dice -. Oggi vado fiero delle mie radici».
Sull’esibizione di Ghali, Umair riflette: «Credo che il suo sia stato un atto coraggioso, ma che non possa portare grandi cambiamenti nella società. Purtroppo, penso che più noi immigrati ci sentiamo italiani, più ci sentiremo dire che non lo siamo. Sarà sempre necessario specificare le proprie origini».
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