Ci sono tracce di Tito Speri negli atti giudiziari dell’Archivio di Stato

L’eroe risorgimentale bresciano delle Dieci Giornate è citato in un registro giudiziario del 1853, custodito nel complesso di via Galilei
La statua di Tito Speri nella omonima piazzetta a Brescia - Foto New Eden Group © www.giornaledibrescia.it
La statua di Tito Speri nella omonima piazzetta a Brescia - Foto New Eden Group © www.giornaledibrescia.it
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La dicitura, quantomai sintetica, è inequivocabile: «Alto tradimento». E accanto, nella fredda scansione degli incartamenti burocratici, un nome che – così scritto – lascia quasi spiazzato il lettore del nostro tempo: Speri Tito. Alla storia, Tito Speri. Dell’eroe bresciano delle Dieci Giornate è quanto ci restituisce un registro giudiziario del 1853, custodito all’Archivio di Stato di Brescia.

Si tratta in realtà di una delle poche evidenze delle sorti del giovanissimo eroe risorgimentale bresciano rimaste nella principale raccolta documentale della Leonessa. La maggior parte degli atti giudiziari relativi al prematuro epilogo della sua giovane vita (compresa la nota sentenza), infatti, è custodito a Mantova, dove fu condannato e ucciso, nel forte militare virgiliano che fece di lui, per l’appunto, un «martire di Belfiore».

L'elenco dei condannati, ritrovato all'Archivio di stato di Brescia - © www.giornaledibrescia.it
L'elenco dei condannati, ritrovato all'Archivio di stato di Brescia - © www.giornaledibrescia.it

Il fascicolo

Nel complesso di via Galilei che è a tutti gli effetti una «fortezza» della memoria collettiva, infatti, non trovano posto le sentenze emesse dall’allora Imperial Regio Tribunale di Brescia, ma solo quelle prodotte a far data dal 1862, a Regno sabaudo già insediato. Eppure di quel fatidico 3 marzo 1853 in cui Tito Speri fu giustiziato qualche traccia ulteriore resta, recuperata dalla pazienza certosina della direttrice dell’Archivio, la dottoressa Debora Piroli, e dei suoi collaboratori.

Un altro dei documenti nel fascicolo - © www.giornaledibrescia.it
Un altro dei documenti nel fascicolo - © www.giornaledibrescia.it

C’è ad esempio – nel fascicolo annotato sul registro citato – la nota inviata dal Tenente Maresciallo Barone Culoz, comandante la fortezza di Mantova «all’inclito I[mperial] R[egio] Tribunale» di Brescia quale accompagnatoria alle cinque copie della sentenza «pronunziata contro 27 individui per titolo di alto tradimento, essendovi fra i detti condannati persone addette alla sua giurisdizione…». Così la sintetica nota, vergata a mano con elegante calligrafia. Quale sia stata la sorte delle copie della sentenza, giunta a noi perché pubblicata a Mantova, invece non è dato sapere.

Tra questi, per l’appunto anche Tito Speri, che già reduce delle battaglie del 1848, dopo gli scontri di Torrelunga nel corso delle «nostre» Dieci Giornate del 1849 (dal 23 marzo al 1° aprile, esattamente 176 anni fa), era riparato in Svizzera prima e a Torino poi, salvo far rientro a Brescia dopo l’amnistia del 1850.

Il suo nome, tuttavia, fu scovato in un documento contabile cifrato custodito dal sacerdote mantovano don Enrico Tazzoli che aderiva al movimento antiasburgico, e tanto bastò alla sua cattura e alla sua condanna a morte, avvenuta appunto il terzo giorno di marzo (mese fatidico nella biografia dello Speri) del 1853. La stessa data che ritroviamo sulle pagine del registro conservato in via Galilei.

Una deposizione della corona al monumento il 3 marzo 2003 - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
Una deposizione della corona al monumento il 3 marzo 2003 - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it

L’«Indice alfabetico dei nomi delle persone inquisite, e delle parti querelanti od offese», vale a dire quello che oggi con espressione giornalistica qualificheremmo come registro degli indagati, di Tito Speri ricorda che è «nato e domiciliato a Brescia, d’anni 26, nubile, licenziato in Legge». Accanto al nome, una eloquente croce asburgica nel campo riservato alla parte offesa: come a dire, lo Stato e la Corona austriaci. Quanto al «Tenore della sentenza», il verdetto è noto e ineludibile: «Condannato alla pena capitale dal Consiglio di Guerra».

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