Zambelli si ferma: «Lascio da uomo e ho sofferto tanto»
Non è un’intervista, ma una storia. Quella di un calciatore, ma ancora prima quella di un uomo. Che ha camminato sulla strada del privilegio di aver potuto trasformare un sogno in realtà, ma attraverso un cammino fatto di sofferenza fisica, mentale e morale. Di battaglie con le pressioni e le aspettative altrui, con la sensazione di non essere mai stato davvero del tutto capito. L’amore folle e la rottura altrettanto folle con il Brescia. Fino ad arrivare a provare rabbia e a chiedersi continuamente «perché proprio io? Perché proprio a me?». Una domanda che lo ha accompagnato dal giorno uno - con quattro crociati fatti entro i 21 anni - fino al giorno «X», quello che lo ha portato a dire addio al calcio giocato senza poterlo metabolizzare perché il suo piano era un altro e perché dalla FeralpiSalò si aspettava altro.
Quella che segue è la storia di Marco Zambelli. Che si racconta da sola.
Marco, perché stiamo parlando a tu per tu oggi? Il «programma» non prevedeva che lei fosse ancora su un campo da gioco a lottare con la FeralpiSalò? «Perché mi viene da dire che non è tutto oro quello che luccica. Con Pasini avevo un patto tra gentiluomini: rinnovo del contratto al 50% di presenze raggiunte l’anno scorso.... Poi però le cose sono cambiate e mi è stata fatta una proposta ridicola. Prima sono state dette delle cose, poi ne sono state dette altre fino a che non mi ha chiamato un direttore sportivo che non conoscevo e che mi ha detto "non c’è più posto per te con la lista dei 22"».
Le avevano però proposto di restare da dirigente... «Più persone mi hanno detto "Marco, vai oltre, nel calcio non è tutto bianco o nero, accetta". Utilitaristicamente mi avrebbe fatto comodo, ma Zambelli avrebbe tradito Zambelli e i suoi valori. Lo so bene che ci sono le sfumature, ma per fortuna ho avuto la libertà di poter scegliere perché se non avessi avuto di che dar da mangiare ai miei figli avrei dovuto accettare. Ecco, il calcio mi ha fatto un grande regalo: la libertà. Anche se alla fine dei conti non ho avuto la libertà di poter decidere da solo quando dire basta. Sono rimasto molto deluso. Ma non perché non ci fosse più posto per me. Avrei capito tutto se anche mediaticamente non fossero stati fatti uscire messaggi sbagliati. E se il mio interlocutore fosse stato Giuseppe Pasini. Avevo creduto di riconoscermi negli stessi valori e invece non sono stato rispettato. Con diverse modalità avrei avuto una stima diversa di tutti».
Non parla così perché ha 35 anni e si ritrova nei giorni difficili della fine di una carriera? «Capisco che possa esserci questo pensiero, ma io credo di avere una credibilità per quello che ho sempre dimostrato. Parlare con Pasini? Sì, vorrei farlo e sapere perché si circonda di "yes man". A noi più vecchi chiese di segnalargli le criticità per aiutare la società a crescere: lo facemmo ma alla fine davamo fastidio. Penso che purtroppo le persone più capaci che aveva intorno non siano più lì. Vorrei parlargli perché non posso credere di essermi sbagliato tanto allora, quando decisi di seguirlo perché mi colpì moltissimo. E poi vorrei sapere perché ha trattato così proprio me. Dopo quello che ci eravamo detti e come».
Quante volte si è fatto questa domanda in carriera? «Sempre. È stata una costante unica. Ho sempre sofferto e se ci penso bene forse sono state in tutto 4 o 5 le partite in cui mi sono divertito. Ricordo quando dissi a Corioni che volevo smettere...».
Davvero? «Sì, era il 2006. A Ospitaletto mi vide crucciato. Mi chiese con un braccio intorno al collo "Marco, che ghé?". "Pres, voglio smettere, mi sono già operato 4 volte, sto sempre male". Avevo attacchi panico continui. Ogni infortunio era un cazzotto e continuavo a chiedermi "ma cosa devo dare ancora?". Mi diede due settimane libere e andai a Gerusalemme. Là non cercai né trovai risposte, ma al ritorno ripresi ad allenarmi e le cose andarono».
Nonostante tutte le sfortune lei ha avuto grandi chances: sarebbe potuto andare al West Ham e al Parma guadagnando molto. E poi Mancini venne a vederla per l’Inter... «Sapete cosa? Che io volevo essere qualcuno, il numero uno a Brescia. Che non me la sono sentita di uscire dalla mia zona di comfort. Avevo paura di staccarmi da tutto il mio mondo. L’ho capito davvero quando sono andato via da qua: io sono uno da cuore. Deve esserci quello per farmi stare bene e sentire qualcosa di speciale. Altrove sono stato solo un dipendente. È la testa che muove tutto, tanto che anche un’altra cosa ho capito: quella sera che Mancini venne a vedermi io mi stirai e nel secondo tempo della gara con l’Avellino (era il 2007) non rientrai. Era un infortunio nato dalla testa: non volevo andare via».
E perché poi da Brescia se ne andò? «Non ce la facevo più. Forse anche perché non c’era più papà Gino...».
Lasciò sul tavolo tre anni di contratto senza buone uscite. Oggi si può dire quanto ci perse? «Sì: 750.000 euro netti. Non ho guadagnato i milioni in carriera, ma non rinnego nulla». Con un risparmio, al lordo, di un milione e mezzo per la società... Si è spiegato perché venne quasi trattato da infame? «È un altro dei mille perché che mi sono chiesto».
Ma lei cosa vorrà fare nel calcio? «So che i compromessi vanno fatti, ma vorrò lavorare sempre rimanendo me stesso con i miei principi. Vorrei dedicarmi alle risorse umane, alla cura delle persone che ci sono dietro gli atleti».
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