Per l’ultimo saluto a Gavazzi tutto il rugby italiano si è riunito a Calvisano
L’oio bù ’l vé sèmper a gàla. L’olio buono viene sempre a galla, diceva spesso Alfredo Gavazzi citando un proverbio imparato da suo padre. Ometteva la seconda parte del motto: ma sé ’l vé a gàla dòpo mort, l’è compàgn dé sbrofà l’éra al pòst dè l'ort. Ma se viene a galla quando uno è morto, è come innaffiare l’aia al posto dell’orto.
Al funerale dell’uomo che aveva fondato la Tiesse Robot, il Rugby Calvisano e trasformato un paese di ottomila anime nella capitale del rugby italiano, di olio buono ne è venuto a galla parecchio. E forse Gavazzi ne sarebbe stato orgoglioso, a prescindere dal finale del proverbio. A testimoniare la riconoscenza, il rispetto, la stima, l’affetto per quello che Gavazzi aveva fatto da imprenditore, da presidente federale e da appassionato di rugby, ieri per l’ultimo saluto sono arrivati in tantissimi, spontaneamente da ogni parte d’Italia. Giocatori, dirigenti, amici, tecnici.
Tra il San Michele e la Parrocchiale di Calvisano hanno sfilato dietro alla bara di Gavazzi, trent’anni, o forse più, di storia del rugby nazionale. Impossibile citarli tutti, senza far torto a qualcuno: c’erano il suo predecessore alla presidenza della Fir, Giancarlo Dondi, che non ha voluto mancare nonostante gli 87 anni, e il suo successore, Marzio Innocenti, con il vice presidente Antonio Luisi.
E c’erano almeno mille caps, utilizzando l’unità di misura che il rugby ha adottato per calcolare le presenze in nazionale; dai «centurioni», Alessandro Zanni, Martin Castrogiovanni e Alessandro Troncon, fino ai più recenti, Jimmy Tuivaiti e Pierre Bruno. C’erano tanti rappresentati dei club: Benetton, con l’intero stato maggiore, Petrarca (con anche l’ex Andrea Marcato), Valorugby, Colorno, Lyons, e altri ancora. C’erano gli allenatori Andrea Cavinato, Massimo Brunello e, ovviamente, Gianluca Guidi e Ciccio De Carli.
In un sabato di temperature estive, uno di quei pomeriggi in cui normalmente c’è la partita al San Michele, lo stadio risuonava di uno silenzio spettrale, le bandiere giallonere a mezz’asta, il parcheggio pieno, i giocatori sul campo, vestiti con i colori sociali. Ma nessun arbitro a dare il fischio d’inizio, nessuna squadra avversaria.
Il corteo, partito dalla sede del club, prima di raggiungere la chiesa ha fatto sosta sul terreno dove normalmente il Transvecta gioca le partite in casa: l’auto con la bara di legno chiaro ha accompagnato Gavazzi a un ultimo saluto sotto i pali, i giocatori del presente, ed alcuni del passato, a fargli ala.
Sono stati minuti toccanti, l’addio di un uomo al luogo che aveva costruito con i suoi sogni e dei cui sogni era stato il teatro: le vittorie in campionato, le sfide con i giganti del rugby mondiale, i Leicester Tigers, il Cardiff di Jonah Lomu, lo Stade Francais. Gavazzi aveva fatto di Calvisano una capitale, molti gliel’hanno rimproverato in vita, ma sulla sua bara ieri c’erano la maglia giallonera e quelle azzurra della Nazionale. Era convinto che il rugby italiano avrebbe potuto diventare grande per propagazione di quella cellula cui lui aveva dato vita al San Michele. E che il suo olio buono, alla fine, sarebbe venuto a galla in tutta Italia. Ieri, a chi gliel’avesse ricordato, avrebbe detto con la sua aria sorniona: «Vedi, alla fine sono tutti qui, non mi ero sbagliato».
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