La volta in cui ho portato mio figlio a vedere il Brescia
Mentre mi attardo a salutare i giocatori che fanno il loro giro trionfale del campo al Rigamonti - sono in gradinata e quindi la distanza è siderale, forse chissà/succederà spero come tutti che valga anche per lo stadio, un giorno - mio figlio risale le scale per dirmi di scendere, dato che gli altri ci aspettano. Gli rispondo di portare pazienza ancora qualche minuto e a quel punto un signore si gira e gli dice «guarda che non è che accada poi così spesso».
Ecco, ho pensato che a cinque anni mio figlio fosse pronto per vedere con un minimo di soddisfazione e interesse le partite del Brescia e si è beccato la stagione migliore da nove anni a questa parte. Beato lui. Certo, il livello di attenzione è ancora bassino, tant'è che non ha visto il gol di Dessena che ci ha dato la vittoria contro l'Ascoli, con il bonus della promozione in serie A, ma mi ricordo che anch'io facevo fatica da piccolo, e in parte pure adesso: guardarsi in giro, osservare gli altri sugli spalti è una tentazione troppo forte.
Portare un bambino non piccolissimo, ma comunque piccolo allo stadio richiede tutta una serie di precauzioni. Io ho pensato al cibo, preparando piccoli panini al prosciutto, più uno alla cioccolata, da centellinare nel corso della partita, come fa il protagonista del film La storia infinita mentre legge il libro nella soffitta della scuola. Servono succhi, naturalmente, e acqua, anche se il fatto di dovere versare le bottigliette nei bicchieri di carta, all'ingresso, rende la conservazione molto più complicata. Basta un movimento sbagliato e si rovescia tutto. E se poi ottieni il coperchietto di plastica al bar, quando fai un rifornimento, devi calcolare che può diventare una nuova forma di distrazione. Mio figlio sfregava le linguette del buco al centro riservato alla cannuccia. «Cosa fai? Guarda la partita», gli ho detto. «È uno strumento musicale», la risposta. Ok. Cibo e bevande, con moderazione, servono a mantenere il giusto apporto energetico, sconfiggendo l'eventuale noia.
Se fa caldo serve anche il cappellino, a cui non avevo pensato. Per fortuna mia mamma, cioè sua nonna, è riuscita a fargliene avere uno direttamente all'ingresso del Rigamonti, con quell'organizzazione che solo una nonna può mettere in atto. Bene, perché mercoledì c'era una temperatura micidiale, con il sole dritto e spietato davanti a noi fino alla fine della partita. A un certo punto anche il piccolo mi ha chiesto quando sarebbe tramontato, stupito da tanta luce. Nel corso dell'ora abbondante trascorsa sulla gradinata in attesa del fischio d'inizio l'avevo fatto sedere dietro a me, che stavo in piedi, proteggendolo con la mia ombra, il che però gli impediva di vedere e giustamente se ne lamentava: trovare una soluzione, con i bambini, può concludersi sempre e comunque con una sconfitta, ecco perché servono jolly tipo il minipanino. Comunque ho visto che ero in buona compagnia: l'accoppiata padre e figlio o figlia, senza nulla togliere alle madri, resta un grande classico dello stadio.
Cosa ha capito della partita? Cosa ha seguito? Dovrei avere i suoi occhi per dirlo, ma sono fiducioso del fatto che sia riuscito ad apprezzarne l'andamento. L'ho sentito dire «bravo» di fronte a un bel passaggio e l'ho visto battere le mani quando tutti le battevamo. Ogni tanto gli spiegavo cosa stessero facendo i giocatori, ricordandogli di concentrarsi perché loro, in campo, lo sentono se ci impegniamo anche noi. Per dargli maggiori motivazioni l'ho tenuto seduto sulle mie gambe, in certi momenti, ma faceva troppo caldo. Sempre meglio di quella volta in curva, quando fui costretto a stare in piedi con lui in braccio perché nessuno stava seduto e lui non vedeva niente.
Naturalmente, faceva domande. Sul perché dell'astio nei confronti dei bergamaschi esplicitato nei cori. O su quello verso la Juve. Cantava anche lui «Forse chissà...» e «Solo Brescia», già sentite, mentre taceva sui cori più ingiuriosi, anche se so che ha registrato tutto. La sua candida maestra d'asilo, una volta saputo che sarebbe andato a vedere il Brescia, ha commentato «chissà quante parole sentirà». Infatti lui, al nonno, ha raccontato che allo stadio «ci sono tanti matti, anche sciocchi». Poi, dopo qualche istante di silenzio ha chiesto «si può dire sciocchi o è una parolaccia?».
Oltre a vivere lo stadio nei suoi aspetti più divertenti e in quelli più truci, almeno dal punto di vista verbale, mi sembra che abbia imparato alcune cose importanti, come il fatto di dover affrontare la paura della turca nel fare la pipì nei bellissimi bagni del Rigamonti, oppure decidere alla svelta il gusto del ghiacciolo, mentre attorno venti tifosi aspettano la birra per festeggiare la promozione. Non ha ancora imparato come funziona il passaggio alla serie A, ma non è detto che non abbia altre occasioni più avanti (lo dico per esperienza). Si è preoccupato per la tenuta della metropolitana, ma ho ritrovato in lui quell’energia che ti lascia addosso una bella giornata di calcio dal vivo. Non in tv, dove la maggior parte delle volte si addormenta al terzo minuto. Naturalmente mi ha portato a festeggiare in modo diverso rispetto a un tempo: ricordo che nove anni fa, dopo una pizza notturna seguita ai cori in piazzale Repubblica, ero tornato nella zona della fontana per vedere la situazione, incontrando un reduce che ancora sbandierava solitario, saranno state le tre o le quattro di notte, urlando cose irripetibili. Stavolta abbiamo chiuso prima, però ieri mattina eravamo di nuovo lì a canticchiare, a colazione, le canzoni per le rondinelle. E mio figlio mi ha chiesto come fa quel pezzo che dice che gli juventini devono vivere a Torino: in fondo, è una delle più innocue. Poi è andato a scuola e chissà cos’avrà detto alla sua candida maestra. Ma voglio essere fiducioso, proprio come prima di una partita.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato