Sport

«La meningite ha lasciato il segno, ma non mi ha fermato»

La toccante testimonianza di Veronica Yoko Plebani, canoista paralimpica ora impegnata nel triathlon
VERONICA YOKO PLEBANI, L'ATLETA SI RACCONTA
AA

Il cancello si apre e dietro, pronto ad entrare, c’è un Defender. Alla guida una bionda, con due fanali azzurri al posto degli occhi e un sorriso contagioso. Veronica Yoko Plebani, ventunenne di Palazzolo sull’Oglio, sarebbe un incontro da fare almeno una volta nella vita.

Campionessa paralimpica di canoa, ora impegnata nel triathlon, è stata colpita all’età di 15 anni da una meningite fulminante: «Era il giorno di Pasquetta - ha raccontato ieri, ai microfoni di Radiobresciasette, nel Magazine di Maddalena Damini - e avevo appena salutato i miei amici. Ero a casa e a un certo punto ho sentito una fitta strana, mi sono seduta sul letto e un fuoco ha cominciato a bruciarmi il viso. Avevo la febbre a 40».

Veronica e la sua mamma si accorgono subito che la situazione è grave: «Le ho chiesto di portarmi al prontosoccorso - continua il racconto - . Ma c’è voluto un po’ di tempo per capire che era meningite. I sintomi sono difficili da diagnosticare».

Una malattia veloce che quando non uccide, lascia segni indelebili sul corpo. E così Veronica deve amputare alcune dita delle mani e dei piedi: «L’organismo va in protezione degli organi principali - spiega -. Il sangue lascia le estremità del corpo, per questo vengono amputate, per salvarti la vita. Le cicatrici sono conseguenza di un’ustione interna: come se fossi sopravvissuta a un incendio. Ho sopportato molto dolore, sono stata in ospedale da aprile a settembre».

Poi, finalmente, il via libera per tornare a casa: «Quando sono uscita dall’ospedale - continua Veronica - avevo paura di rivedere i miei amici: non volevo trovare nei loro occhi la reazione di chi prova pena e tristezza. Così avevo deciso di rivederli con calma. Invece, per casualità, il giorno del mio ritorno, li ho trovati tutti in piazza a Palazzolo. Quando hanno riconosciuto l’auto di mio papà ci sono saltati addosso. È stato bellissimo».

Poi c’è stata la maratona di New York: «Mi ha spinto mio padre in carrozzina - racconta ancora Veronica - . Gli ultimi metri li ho fatti da sola, mi sono alzata e ho cominciato ad andare verso il traguardo. Lo speaker ha urlato "We all run for Veronica" (corriamo tutti per Veronica, ndr). Papà piangeva come una fontana, una lacrima è sfuggita anche a me».

E chissà quante altre ne sono state versate da quegli occhi che ora raccontano solo voglia di vivere ed entusiasmo: «Studio Scienze politiche - dice - , ho un fidanzato e tra poco, sabato 30 giugno, dovrò affrontare una gara importantissima di triathlon a Salò. Ho tutto quello che mi serve per essere felice». «Hey Jude, non peggiorare le cose: prendi una canzone triste e rendila migliore», cantano i Beatles. Veronica non se l’è fatto ripetere due volte, ha preso un dolore e l’ha trasformato in una vita comunque meravigliosa.

 

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Condividi l'articolo

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato