«Io, Sheva e l'abbraccio a Kiev: che onore essere nel suo libro»
Piero Serpelloni lo chiamano il «mago dei muscoli», perché ha rimesso sempre in piedi i grandi campioni che bussavano alla sua porta. Lui ha sempre fatto spallucce davanti a tale appellativo guadagnatosi in tanti anni da massaggiatore, preferisce dire che nella sua vita professionale è stata importante l’esperienza nell’azienda agricola di famiglia: «Ti insegna l’umiltà e la capacità di adattamento per misurarsi poi nel mondo».
Anche ad un «burbero» come lui - tuta e scarpe da ginnastica d’ordinanza in quasi ogni occasione - di recente sono brillati gli occhi: è successo quando in molti hanno iniziato a mandargli scatti delle non poche parole che Andriy Shevchenko gli ha dedicato nella sua recente autobiografia «Forza gentile».
Cosa rappresenta per lei Shevchenko? «Il nostro è un rapporto che va oltre ogni cosa. A lui sono legato da una profonda amicizia, lo considero un fratello minore. Non ho mai osato chiedergli se fossi stato citato nel libro. Poi più di una persona ha iniziato a mandarmi gli screenshot del capitolo 19 e allora ne ho prese un paio di copie. Sono orgoglioso di essere nella sua biografia: Andriy lo conosciamo tutti come campione, ma nel suo paese è considerato come un Dio».
Riavvolgiamo il nastro: il vostro primo incontro, è stato quasi per caso? «Seguivo già Pirlo da diversi anni e altri nel Milan. Poco prima della semifinale di Champions del 2003 con l’Inter, mi disse che Shevchenko aveva un problema al flessore, postumi di un’operazione al ginocchio. Arrivò a casa mia a Nave alle 22.30, accompagnato da Rezo Chokhonelidze, uomo fidato di Lobanovski e scout del Milan nell’Est Europa, un ex colonnello dell’Urss. Non mi pareva vero».
E poi? «La stagione andò bene. Il giorno dopo la vittoria della Champions contro la Juve, alle 22.30 era di nuovo fuori da casa mia: poteva essere a festeggiare, venne a ringraziarmi. Mi chiese di seguire solo lui, gli dissi che non potevo e che si doveva mettere in coda agli altri».
Anche quando andò al Chelsea? «Cercò di portarmi a Londra. Mi fecero un’offerta a cifre che mi vergogno a dire, cinque anni di contratto. Dissi di no per la famiglia e perché avrei tradito il rapporto con tutti gli altri giocatori che seguivo».
Eppure il vostro legame si rinforzò. Ma la fece mai arrabbiare? «Una volta. Arrivammo in Ucraina con un jet privato e ci prelevò una camionetta: i 20 chilometri peggiori della mia vita, a 200 km/h, io me la facevo sotto e lui se la rideva».
A proposito di Ucraina seguì la Nazionale anche ai Mondiali 2006? «Un’esperienza bellissima, mi fece conoscere un altro mito come Oleg Blokhin».
E come andò? «Era uno schematico, non amava gli italiani. Ma gli venne la sciatalgia ed i dottori ucraini non trovarono soluzioni. Lo vidi è capì che in realtà un’artrosi all’anca che piano piano sbloccai. Il giorno dopo arrivai al campo e c’erano i dottori in fila con Blokhin che sbraitava contro di loro. Ero pallido. Mi diede due pacche sulle spalle e non mi lasciò più, cucinavo anche per tutti loro».
Fine della variazione sul tema: chi era Shevchenko? «Di lui so tantissimi segreti, era unico. Non l’ho mai visto leggere un giornale: non perché non gli interessasse, ma perché era uno che non soffriva i voti. La sua unica missione era migliorarsi. Gli diedi un programma da svolgere nelle 48 ore tra le partite che giocava: era come una Ferrari, andava smontata, lubrificata e riassemblata».
Il ricordo più bello che ha di lui? «Prima dell’Europeo 2012, era piuttosto giù. Tolsi un mese alla mia famiglia e andai da lui per rimetterlo in forma. Quando alla prima partita a Kiev contro la Svezia, davanti a 85.000 persone, corse ad abbracciarmi dopo la doppietta, resta una delle cose più belle della mia vita». L’ha sentito per ringraziarlo delle parole nel libro? «Sì, gli ho mandato un messaggio: "Andriy, sono stupito e orgoglioso. Mi sa che qui a Brescia il libro va a ruba". Mi ha risposto con un cuore e la bandiera ucraina».
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