Maran, ode al Brescia: «Di rado mi sono così divertito allenando»
«Essere curiosi. Amo le persone dubbiose e non quelle che hanno troppe certezze. Le prime hanno ampi margini di miglioramento, le seconde no» dice l’allenatore del Brescia Rolando Maran, ospite d’eccezione ieri sera dell’Aiac (Associozazione italiana allenatori calcio) sezione bresciana in un incontro promosso all’istituto Mantegna (presenti anche l’assessore allo sport del Comune Cantoni oltre ad Adriano Cadregari e Emanuele Filippini). Un dibattito con numerose domande degli allenatori nostrani al tecnico del Brescia seduto «di sponda» davanti alla scrivania che gli avevano preparato («Non mi piace sedermi lì come un docente perché non lo sono e stare qui mi fa sentire che sono uno di voi»), tante curiosità soprattutto concentrate sulla gestione, sulla psicologia – un’arma che sta dimostrando di saper utilizzare molto bene a Brescia – e sui principi.
Il pensiero
Un Maran disponibile e schietto con il diktat a tutti presenti a dargli del «tu» e l’invito «a non rivolgermi domande sul Brescia». Ma inevitabilmente qualche flash non è mancato: «Poche volte mi sono divertito così tanto ad allenare una squadra e questo grazie ad un gruppo di ragazzi splendidi». O quando, alla domanda di come si lavora con la pressione di un ambiente ostile alla società rispondeva secco con un «ci si concentra solo su noi stessi», mentre sul cosa valutava in primis per accettare una proposta, in special modo in corsa, di lavoro da parte di un club, rispondeva «Credo che la componente squadra sia il primo riferimento.
E poi, che ci siano strutture adatte per lavorare al meglio», parametri che, evidentemente, ha riscontrato alla chiamata di Cellino. Qualche pensiero profondo, qualche battuta «off record» e la solita umiltà: «La differenza tra un allenatore professionista ed uno dilettante? Beh, spesso c’è un filo sottile che li separa, perché non è solo questione di capacità, ma anche di opportunità».
Momento amarcord
Non è mancato un amarcord sul suo passaggio da giocatore («Ma ero un difensore "normale"») ad allenatore, con le figure che lo hanno reso possibile: «Un peccato averli avuti come miei tecnici verso fine carriera, ma Malesani e Baldini mi hanno fatto intravedere un altro calcio rispetto a quello che conoscevo. E questo ha fatto nascere in me la curiosità e poi lo studio. Silvio (Baldini, ndr) poi fu di parola perché mi disse che mi avrebbe chiamato come suo secondo in caso di una chiamata importante. E lo fece, mentre stavo ancora giocando. Ma ci misi 15 secondi per decidere di ritirarmi dal calcio giocato e di seguirlo».
Per quella professione post campo che, con l’ultimo match al Ferraris contro la Samp di sabato scorso, gli ha fatto toccare («Davvero? Non lo sapevo…») quota 720 panchine da prof. Sul chi fosse il giocatore più entrato in empatia con lui, la sorpresa è sul nome di Nainggolan: «Appena chiamavo "Radja!", lui subito faceva quello che avevo in testa di dire senza che io dicessi nulla perché capiva ciò che stavo per dirgli”. Fino alle battute finali: «Che dati guardo a fine partita? In primis, il risultato… La costruzione dal basso? Grande aiuto, ma non se viene portata all’eccesso. Guardiola il numero uno? Sì, un grandissimo, ma come Ancelotti che ha vinto ovunque. E un numero uno al mondo, qui ce l’avete in casa, Roberto De Zerbi. La mia più grande soddisfazione da mister? La prossima…».
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