Calcio

È morto Sinisa Mihajlovic

L'ex allenatore del Bologna era malato di leucemia da tempo. L'annuncio dato dalla famiglia
Sinisa Mihajlovic - Foto Ansa
Sinisa Mihajlovic - Foto Ansa
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È morto Sinisa Mihajlovic, ex allenatore del Bologna e calciatore serbo. Aveva 53 anni e da tempo era malato di leucemia.

La famiglia Mihahjlovic ha diramato un comunicato nel quale annuncia la scomparsa del tecnico serbo, definendo la sua morte «ingiusta e prematura». «La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic» si legge nel testo diffuso dall’Ansa.

La malattia

Era stato lo stesso Mihajlovic, nel luglio 2019, a dare la notizia di aver contratto la malattia. Voleva prenderla di petto, nel suo stile diretto, incapace di nascondersi, che si trattasse di difendere l'adorata Serbia o un compagno di squadra. «Io non gioco mai per non perdere, nel calcio come nella vita. Sconfiggerò il male - aveva detto l'allora tecnico del Bologna - e lo farò per mia moglie, per la mia famiglia, per chi mi vuole bene». A 53 anni - dopo alti e bassi, speranze di guarigione e ricadute - si è dovuto arrendere, lasciando un vuoto in quanti lo hanno apprezzato come centrocampista e difensore di tante squadre - dalla Stella Rossa di Belgrado all'Inter - e poi sulle panchine di vari club italiani: la stessa Inter, Catania, Fiorentina, Milan, Torino, Sampdoria. Ha vestito anche le maglie di due nazionali: Jugoslavia e Serbia-Montenegro.

Gli esordi

Nato a Vukovar, madre croata e padre serbo, Mihajlovic dopo aver vissuto gli orrori della guerra etnica si mette in luce con la Stella Rossa, vincendo la Coppa dei campioni a 22 anni. Attira l'attenzione con il suo potente sinistro, micidiale nei calci piazzati (28 le reti realizzate solo in serie A). Portato in Italia dalla Roma nel 1992, due anni dopo passa alla Sampdoria, dove diventa il pupillo del tecnico Sven Goran Eriksson che lo valorizza schierandolo al centro della difesa.

Nel 1995 conosce la donna della sua vita, Arianna Rapaccioni, che sposa l'anno dopo e più di chiunque altro gli è stata vicina durante la battaglia contro la malattia. Dalla loro unione sono nati cinque figli (Mihajlovic aveva avuto il figlio Marko da una precedente relazione). A giugno 2021 avevano festeggiato le nozze d'argento dicendosi nuovamente sì, con una romantica cerimonia a Porto Cervo. Nel 1998 si trasferisce alla Lazio. Sono gli anni dell'ultimo conflitto balcanico e quando la Nato bombarda Belgrado, con gli aerei che partono dalle basi in Italia, Mihajlovic non nasconde l'orgoglio di essere serbo. Come non rinnega l'amicizia per Zeliko Raznjatovic, ex capo ultrà della Stella Rossa, meglio noto come il comandante Arkan.

Con il connazionale Dejan Stankovic, nel maggio del 1999, a Udine gioca con il lutto al braccio e, dopo aver trasformato un rigore, mostra la maglietta bianca con il bersaglio e la scritta «target», simbolo di quanti da oltre un mese protestano per gli ordigni contro la Serbia. In biancoceleste dal 1998 al 2004, diventa l'idolo della tifoseria che ripaga con un totale di 20 gol, suo record con la stessa maglia. Chiude la carriera nel 2006, dopo due stagioni all'Inter.

L'allenatore

Da tecnico si guadagna ben presto il soprannome di sergente per i pesanti metodi di allenamento. Una carriera con più esoneri che successi, ma ovunque Mihajlovic è apprezzato per l'impegno e la dedizione al lavoro. La grinta, la voglia di essere in panchina nonostante gli effetti delle cure, lo fanno amare a Bologna più che altrove. E giocatori e tifosi lo ringraziano, andando a salutarlo sotto le finestre dell'ospedale, quando non può essere al suo posto. O recandosi in pellegrinaggio al Santuario di San Luca, con quelli della Lazio, per pregare insieme per il loro allenatore.

La storia in rossoblù si chiude con l'esonero nello scorso settembre, amaro e non accettato: «Stavolta il sapore che mi lascia il mio voltarmi indietro è più triste», scrive rivolto a «fratelli e concittadini, dopo tre anni e mezzo di calcio, di vita, di lacrime, di gioia e di dolori»

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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