La storia dell'allenatore bresciano che trasforma in campioni i maratoneti del Kenya
Nelle aule della scuola di Kaptabuk, sugli altipiani del Kenya occidentale, ai lati della lavagna sono appese due foto. Quella a destra ritrae William Ruto, eletto presidente della repubblica a settembre dello scorso anno. L’altra, in una cornice dorata identica e di poco più piccola, è quella del bresciano Gabriele Rosa.
I genitori degli studenti, accorsi dai villaggi vicini per la giornata di festa, la inquadrano con i telefonini e scattano: oggi è lui l’ospite d’onore, tornato in Africa dopo tre anni di lontananza forzata a causa della pandemia di Covid.
Cardiologo, 80 anni, è uno degli allenatori di maggior successo nell’atletica mondiale, oltre che fondatore nel 1981 del Marathon Center a Brescia Due, in via Creta, primo polo medico sportivo polifunzionale in Italia.
Nel suo palmarès brillano 13 record mondiali, oltre mille maratone vinte (di cui 56 major), 21 medaglie d’oro ai Campionati del mondo e 4 ori, 8 argenti e 7 bronzi alle Olimpiadi. Anche per questo, appena scende dalla macchina, il benvenuto è quello che si riserva alle persone che contano: bastone del potere, mantella tradizionale sulle spalle, cappello con i pon pon di lana e una pecora in dono. Il «doc», tra un coro e una danza di guerrieri, la restituisce agli abitanti del paesino.
Come tutto è iniziato
Trentadue anni fa Gabriele Rosa ebbe l’intuizione che fece svoltare la sua carriera e cambiò per sempre la storia della maratona mondiale: aprire training camp in Africa. Oggi ne gestisce insieme ai figli più di una decina tra Etiopia, Uganda e - soprattutto - Kenya. Ed è proprio qui, al cospetto della Great Rift Valley culla dei primi passi dell’uomo, che ha scoperto e cresciuto i runner più talentuosi del pianeta.
«Resistere 32 anni in Kenya è stata una sfida» ci spiega mentre aspettiamo il gruppo di atleti del camp di Kaptagat che, come ogni mattina, correranno il lungo sulla terra rossa dell’«autostrada della corsa», a 2.400 metri sul livello del mare. Ventiquattro chilometri su e giù dalle colline nei pressi di Eldoret, cittadina conosciuta come «home of champions», dove le falcate dei runner sono rotonde ed economiche, ginocchia basse e talloni che sfiorano i glutei, mentre le punte dei piedi alzano nuvole di polvere rossa nella foresta di eucalipti.«Siamo stati tra i primi ad arrivare qui e ad intuire che il segreto era permettere ai keniani di allenarsi nella loro terra - prosegue Rosa, che tiene gli occhi fissi al cronometro, come un laser -. Lontani dalle famiglie e dai panorami naturali in cui sono cresciuti soffrono troppo». Unica eccezione è stata Margaret Okayo, che per anni scelse di allenarsi tra i vigneti e le torbiere di Franciacorta: «A Iseo la conoscevano tutti, le signore si affacciavano alla finestra per vederla passare e salutarla con la mano. È il mio rimpianto più grande: si ritirò per una delusione d’amore».
Duro lavoro
Lo stile di corsa, l’efficienza dei muscoli, la corporatura snella e l’effetto sui polmoni dello sforzo in altura fanno dei keniani dei campioni difficili da eguagliare. «Ormai vincono l’83% delle gare internazionali» sottolinea Piergiuseppe Picotti, originario di Monticelli Brusati e storico collaboratore di Rosa Associati, che vive a Eldoret la gran parte dell’anno per coordinare gli atleti ed essere il riferimento dei diversi training camp. Certo è che a fare la differenza è anche la dedizione, quasi maniacale, incentivata dallo spirito di squadra e dalla vita in isolamento nei camp, lontani dalle distrazioni.
Seguiamo il gruppo, compatto quasi fino alla fine, a bordo di una jeep da safari, sporgendoci dal tettuccio apribile. «Sorpassali lentamente - intima il medico bresciano all’autista Wawero, arrivato da Nairobi - altrimenti gli riempiamo i polmoni di polvere e poi sono costretti a sputare per venti minuti».
È il primo allenamento del giorno, il lungo, a cui ne seguirà un altro nel tardo pomeriggio, dopo il riposo e la fisioterapia. Sette giorni su sette, «sundays don’t exist», oltre a un paio di sessioni di lavori di forza in palestra con i bilancieri, ma anche esercizi di propriocettività (una specie di sesto senso da affinare: saper percepire la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei muscoli). Vedere correre i keniani è uno spettacolo: sono un corpo e un respiro solo. Tam, tam, tam, tam. Basta chiudere gli occhi per un attimo e il pensiero sfiora un branco di gazzelle: eleganti, veloci, forti. Alberto Malinverni, videomaker al seguito della spedizione, ci si infila in mezzo per documentare la corsa dall’interno. «È un’emozione pazzesca, dà alla testa». E l’altitudine non c’entra.
Vita da camp
Arrivati al camp di Kaptagat - uno dei più belli d’Africa, in stile inglese - l’accoglienza è la stessa che si replicherà in ogni villaggio o scuola che visiteremo: anguria, mango (eccezionale il sapore che ha qui), banane, un pane sottile che si chiama chapati (tipico dell’India, a dire il vero), fagioli stufati, riso bollito e carne di pecora cotta alla brace. Per ospitalità ci offrono le posate, che di solito non si usano. Nei termos, resta caldo il «chai ya tangawizi»: tè nero keniano coltivato nelle piantagioni di Nandi Hills, servito con il latte e insaporito con ginger, zenzero fresco e semi di cardamomo schiacciati.
Fuori in giardino, al sole cocente dell’equatore, gli atleti sbattono le scarpe per pulirle dalla terra rossa che entra ovunque. Nelle orecchie, nelle calze, sotto le unghie. Visti da lontano, avvolti nelle maglie colorate che contrastano con le siepi basse, sono un tutt’uno con il grande murale dedicato al campione olimpico Samuel Wanjiru. «Morì in circostanze misteriose dopo un litigio con la moglie - commenta il «doc» -, era uno dei migliori che io abbia mai allenato». Le atlete invece si sono ritirate in camera, impegnate a rinfrescarsi prima del pranzo. Attaccati al muro sopra i piccoli letti, articoli di giornale e medaglie.
I camp di Rosa Associati hanno tutti la stessa impronta: coach un ex maratoneta keniano (a Kapsabet è Stanley Biwott, a Kapsait è Erick Kimaiyo, a Torongo è Barnabas Kitilit, a Kaptagat è Nicholas Koech), disciplina ferrea e ritmi simbiotici con i compagni. «Noi non usiamo tabelle - spiegano - anche se va da sé che per ogni atleta ci sia un programma personalizzabile, in base a recuperi o gare da preparare».
Discovery Kenya
È comunque un bel contrasto con le corse ancora spensierate dei bambini del Discovery Kenya, la cross country che anche quest’anno ha coinvolto tremila iscritti, suddivisi in dieci gare che vanno dai 500 metri per i bambini della scuola materna ai 10 chilometri dei senior. Giunta alla sua 32esima edizione, attira scuolabus e matatu (i minuscoli pulmini bianchi che funzionano come taxi) da tutto lo stato. Leah Kirma, insegnante di ginnastica al Chemabwai-Sang Educational centre, racconta: «Per i miei allievi è una grossa occasione: i più talentuosi possono mettersi in mostra e sperare di essere selezionati per un training camp. Un cambio di vita che per questi ragazzi e per le loro famiglie sarebbe una benedizione».
Alcuni corrono indossando la divisa della scuola per non lasciarla incustodita e rischiare di farsela rubare. Chi ha le scarpe da corsa le infila pochi secondi prima dello sparo di start: nulla qui va sprecato, tantomeno le suole. Quella che si tiene ogni anno all’Eldoret Sports Club - dove all’ingresso campeggiano i cartelli «no gun» - è più una festa della corsa che una gara, ideata da Rosa con l’ex campione Moses Tanui. Proprio lui, appena avvistato il suo mentore, lo abbraccia: «Moses, father, thank you». Gli offre il braccio e ricorda come si sono conosciuti: «Mi ha rimesso in piedi dopo che mi ero spappolato i tendini del ginocchio. Gli devo tutto».
Non è l’unico a rivolgersi al dottor Rosa in questo modo. «Ma per forza, pensavano tutti fossi morto, non mi vedevano da troppo» dice allargando la bocca in una risata, stupenda perché la concede di rado. Per questo ha organizzato una cena con tutti i suoi ex campioni? «No, l’ho fatto perché era giusto celebrare anche qui i miei 80 anni. Il viaggio, tra aerei e ritmi sfiancanti, mi ha messo a dura prova. Potrebbe essere l’ultima volta che vengo qui». Un’ombra gli accarezza le palpebre, ma dura solo un attimo. «Avanti, andiamo, che c’è ancora tanto da fare».
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