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Cos’è il base jumping, lo sport estremo del salto nel vuoto

La Redazione Web
Nata dal paracadutismo, è in realtà un’attività molto diversa che richiede una preparazione tecnica specifica e implica rischi elevati
Due base jumper nella prima fase del salto
Due base jumper nella prima fase del salto
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Adrenalina, rischio, tecnica. Sono fra i tre ingredienti principali del base jumping, sport estremo che consiste nel saltare nel vuoto da vari tipi di superfici e atterrare con un paracadute o con la tuta alare. Base è in realtà una sigla che riassume le piattaforme solite da cui si stacca il base jumper: B.A.S.E sta per buildings (edifici), antennas (torri abbandonate o simili), span (ponti), earth (scogliere, rocce e altre formazioni naturali).

Il base jumping è nato dal paracadutismo ma si è sviluppato come sport sostanzialmente differente per tutta una serie di questioni tecniche. Diffusosi come attività ricreativa ed estrema dagli anni Ottanta, la sua popolarità si è accresciuta negli ultimi anni anche grazie ai molti video spettacolari pubblicati dai base jumper su YouTube, che riprendono i loro salti con telecamere GoPro.

In molti paesi il base jumping è vietato per legge, vista la sua pericolosità. In Italia non è illegale e lo sport ha il suo punto di riferimento al Monte Brento, sopra Riva del Garda, dove c’è anche una scuola, la Tandem Base Europa diretta da Maurizio Di Palma. 

Dal 1981 si stimano oltre 470 morti nel mondo per il base jumping: l’ultimo è stato Raian Kamel, 36enne nato a Breno che abitava a Cinisello Balsamo, morto ieri in un incidente sul Piz da Lech, in Val Badia, in Trentino.

Come funziona

In genere, il base jumping viene praticato a quote molto più basse rispetto al paracadutismo, in cui ci si lancia da aerei, e avviene dalla piattaforma statica del salto. Di conseguenza, le tecniche di volo e di atterraggio sono molto diverse.

Anche la velocità acquisita dal saltatore è inferiore a quella cui viaggia il paracadutista, che può inoltre sfruttare il flusso d’aria per stabilizzare la sua posizione. Nei primi secondi di caduta libera invece il base jumper non incontra praticamente resistenza da parte dell’aria: questo significa che può raggiungere i 200 chilometri orari e deve quindi essere molto attento alla posizione del corpo al momento dello stacco, perché è determinante per la sua discesa. In caso di errori o imprevisti – che possono essere dati anche dalle condizioni ambientali, come il vento, l’umidità e le variazioni termiche –, ha infatti solo pochi secondi a disposizione per aprire il paracadute. Che è solo uno: non c’è quello di riserva nel base jumping, perché la caduta è comunque troppo veloce per poterne aprire un secondo.

Anche l’atterraggio richiede una grande padronanza tecnica, dal momento che avviene spesso in spazi ristretti, tra edifici, alberi, massi, o comunque terreni irregolari.

L’attrezzatura

Le attrezzature del base jumping sono specifiche. I paracaduti vengono progettati per potersi aprire molto velocemente e in modo controllato, vista la brevissima durata della caduta dal momento del salto. Oltre al paracadute, i base jumper indossano in genere tute, imbraghi, caschi e dispositivi Gps.

Viene usata da tempo la tuta alare, un indumento che si rifà alle forme dello scoiattolo volante e che rispetto al paracadute permette di rallentare in modo considerevole la velocità media di caduta libera (fino a circa 70 chilometri orari). Inoltre, diversamente dal paracadute, la tuta alare aumenta la distanza da possibili ostacoli, diminuendo così il rischio di incidenti.

Come nasce la pratica

Il nome fu coniato da Carl Boenish, un regista americano che nel 1978 filmò i primi salti da El Capitan, famosissima formazione rocciosa verticale nel parco dello Yosemite in California (è quella scalata in free solo da Alex Honnold nel 2017, impresa di arrampicata cui venne dedicato un documentario che vinse l’Oscar nel 2019). La pratica esisteva già in realtà, ma non aveva la notorietà acquisita poi negli anni Ottanta. Nel 1912 Fredrick Law si lanciò dalla statua della Libertà a New York con le tecniche diventate poi proprie del base jumping. Ci furono altri due salti diventati celebri: quello di Plinio Romaneschi da una funicolare in Svizzera nel 1939 e poi quello di Erich Felbermayr di Wels dalle cime di Lavaredo sulle Dolomiti.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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