Il racconto della speleologa bloccata in grotta a Fonteno: «Sto martellando e la roccia si stacca»
«L’appuntamento alle 8.30 per quella che si prospetta una giornata tranquilla e dal risultato quasi assicurato l’ho organizzata io. Ho visto una risalita troppo invitante: 7-8 m di colata enorme con un cospicuo arrivo d’acqua». Comincia così il racconto di Ottavia Piana, la speleologa 31enne di Adro rimasta bloccata per 48 ore a una profondità di 150 metri nella grotta Bueno Fonteno, sulla sponda bergamasca del lago d’Iseo.
La giovane, istruttrice nazionale di speleologia che da vari anni sta mappando il sistema carsico compreso tra il lago d’Endine e la sponda bergamasca del Sebino, ha raccontato in una lettera sulla pagina di Progetto Sebino «quella volta in cui Ottavia si ruppe la gamba e l’intervento del CNSAS non fu un’esercitazione».
Ottavia Piana, dopo l’intervento chirurgico, tornerà in autunno a guidare le spedizioni del Cai di Lovero, ci è iscritta, ma nel frattempo si prende ripercorre i fotogrammi di quel film che, a inizio luglio, ha tenuto col fiato sospeso tutta Italia.
«Scendiamo mediamente carichi: Fonteno Beach, le Fate, Sempre Dritto, Sifonik e nel salone prima che restringa prendiamo la corda per Spalmer, un po’ di cunicolo fossile tutto sommato agevole e scendiamo in una forra dove si trova l’arrivo d’acqua. (...). Per raggiungere la zona di lavoro c’è un pericoloso traverso con attacchi in alluminio e addirittura qualche rinvio, non l’avevamo previsto e non siamo attrezzati a sufficienza per riarmare anche lì, per cui si dedicano ad “addolcire” il cunicolo di arrivo. Intanto io inizio la risalita; piano piano, buono buono arrivo in cima ma è solo un terrazzino, mancano ancora 4-5 m per arrivare a quello che sembra un meandro non larghissimo ma transitabile. (...) Pianto tre chiodi, salgo e mentre sto martellando la roccia su cui sono si stacca. Tanto basta per battere la gamba sinistra contro la roccia e sentire un dolore che non avevo mai provato: credo di aver rotto qualcosa ma se non urlo troppo magari non è vero».
Soccorritori eccezionali
Ottavia, nel suo scritto, sceglie di non ripercorrere «le ore di attesa e le ancor più numerose ore di soccorso che sono seguite. (...) Userò tuttavia questo spazio per cercare di esprimere almeno in parte quanto io abbia ammirato e apprezzato l’impegno, la devozione e l’umanità di tutti quanti si sono prodigati per portarmi fuori. Soccorritori eccezionali, che hanno dato tutto quanto potessero fisicamente e umanamente per portarmi fuori; amici e sconosciuti che hanno messo da parte impegni personali e professionali per dare il loro contributo, che hanno sopportato il mio dolore e supportato il mio umore volubile in ogni modo a loro disponibile. Amici che pur non facendo parte della macchina del soccorso hanno fatto tutto quanto potevano per agevolarla. I miei compagni di uscita, che hanno predisposto l’attesa e i soccorsi nel miglior modo possibile».
Come a casa
Conclude la speleologa: «Non ho parole per l’ammirazione che ho provato vedendo le loro manovre precise, facendo attraversare alla barella posti in cui passava a malapena. Soprattutto non so trasmettere quanta dolcezza, umanità e affetto hanno saputo trasmettermi loro con la loro presenza, con qualche battuta e con le molte premure. Gli episodi si avvicendano così repentinamente nella mia mente, che a scriverli temo di dimenticarne qualcuno. Anche quando ero tra sconosciuti di cui non ricordavo i nomi, chiusa nella barella, con la claustrofobica visiera del casco abbassata, in ogni singolo istante, mi sono sentita a casa».
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