Scuola in ospedale: «In dad il dolore è ancora più duro»
Uno sguardo sul futuro, anche attraverso quelle finestre che spesso non possono aprirsi del tutto. Sentirsi capaci, sentirsi vivi e sentirsi, in fondo, ragazze e ragazzi come tutti.
È questo, secondo Giusi Facchetti, Anna Berenzi e Mariagrazia Feriti, il senso della scuola in ospedale. Loro, insieme al collega Flavio Ciprani, seguono dal punto di vista didattico i giovani pazienti delle superiori ricoverati nei reparti di oncoematologia e di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza degli Spedali Civili, l’unica struttura cittadina che offre il servizio di scuola in ospedale.
Centinaia di adolescenti ogni anno, anche se con il Covid i numeri si sono ristretti, così come è mutata la modalità di svolgimento delle lezioni.
«In genere - spiega Facchetti - abbiamo circa 150 alunni ogni anno, ma nel 2020 si sono ridotti a una quarantina, perché è stata emanata una circolare ministeriale che limitava il nostro intervento ai soli pazienti lungodegenti. Sempre in remoto». Tanto si è parlato di dad in questi quattordici mesi di pandemia: rapporti ibernati, ragazzi alienati nelle loro camerette davanti a un pc… Ma che cosa accade quando ciò che s’intravede sullo sfondo dello schermo non è un qualsiasi ambiente domestico, bensì una stanza d’ospedale? «Accade - rispondono le insegnanti - che la distanza si ingigantisce, andando oltre il mero fattore fisico. Perché al di là del display ci sono ragazze e ragazzi che soffrono. Nel fisico, ma soprattutto nella psiche».
Modalità. La maggior parte degli studenti presi in carico dalla scuola in ospedale è ricoverata in Npia, che nell’ultimo anno si è fatta specchio dell’aumentato disagio giovanile, con sempre più casi di tentato suicidio, autolesionismo e disturbi del comportamento alimentare. «È difficile interagire con loro - spiega Anna Berenzi -, anche se il nostro ruolo, pur inserito nel piano terapeutico, non vuole assolutamente sconfinare nella medicina o nella psicologia. Deve sempre esserci un operatore del reparto ad assistere alle lezioni, che possono essere svolte solo in ristrette fasce orarie. Di solito non diamo compiti, l’obiettivo è mettere i ragazzi in contatto con il mondo esterno e aiutarli a focalizzare la loro vita al di là della malattia. La scuola in ospedale deve essere un alleggerimento, non un carico ulteriore».
I ragazzi fanno fatica: «Lo vediamo - commenta ancora la professoressa Berenzi -, anche dietro le mascherine che devono indossare perché le lezioni si tengono in una stanza comune. Gli occhi sono spenti, la voce flebile, spesso la webcam è volutamente indirizzata verso il soffitto per non inquadrare il volto. Fa male vederli così, ancora di più se al termine della degenza non li aspetta il rientro a casa, ma il passaggio in una comunità terapeutica. È brutto non poter augurare loro buon ritorno a scuola». Diverso è per i pazienti oncoematologici: «Anche se si tratta di ragazzini che spesso lottano per restare in vita - concorda Facchetti - con loro l’approccio è più facile. Possiamo interagire direttamente e accordarci via whatsapp, ci sono meno limitazioni, fisiche ed emotive. Però resta il dover fare i conti con il dolore, non solo il loro, ma anche il nostro. Poco tempo fa, per esempio, è venuta a mancare una ragazza che seguivamo. Aveva tantissima voglia di imparare, era sempre entusiasta. Due giorni prima di andarsene ci ha mandato un messaggio con un cuoricino, dicendoci che non sapeva se sarebbe riuscita a seguire la lezione».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato