Vitamina D, una protezione non solo per le ossa
Le più recenti ricerche sul ruolo della vitamina D, non solo nel metabolismo osseo, ma anche in altri ambiti patologici, sono state tra le protagoniste del quinto Meeting Skeletal Endocrinology che si è da poco concluso all'Università degli Studi di Brescia.
«Il ruolo principale della vitamina D - spiega il professor Andrea Giustina, ordinario di Endocrinologia e copresidente del Meeting - è sicuramente quello di aiutare il calcio a fissarsi nelle ossa, ma recenti studi hanno anche dimostrato come questa vitamina, che in realà è un vero e proprio ormone, sia in grado di agire in altri distretti quali muscoli, cuore, polmoni, o sulla proliferazione cellulare, in quanto il suo recettore è presente ovunque nel nostro organismo».
Di particolare interessa il ruolo che essa potrebbe avere nella prevenzione del diabete. Un recente studio condotto in Australia su 5.200 soggetti, non diabetici, ha dimostrato come un incremento dei livelli di vitamina D possa ridurre del 29 per cento il rischio di diabete di tipo 2.
Mentre un altro studio, pubblicato nel 2012 , condotto su pazienti diabetici di tipo 1, ha mostrato come il trattamento con vitamina D abbia un effetto immuno-protettivo rallentando la distruzione autoimmune delle cellule del pancreas che caratterizza questo tipo di patologia.
Secondo una delle maggiori esperte mondiali del settore e relatrice al Congresso di Brescia, la prof. Bess Dawson-Hughes, del Human Nutrition Research Center on Aging della Tufts University di Boston: «I recenti dati clinici hanno ormai dimostrato che la supplementazione divitamina D riduce del 15-20 per cento il rischio di cadute (grazie alla miglior efficienza del sistema muscolare muscolare) e di fratture negli anziani».
Ma la vitamina D potrebbe avere anche altre funzioni: «Una serie di studi - prosegue laDawson-Hughes- ha mostrato anche una correlazione tra carenza di vitamina D e diabete di tipo 2. Alcuni di essi sembrano confermare l'ipotesi di un ruolo della vitamina D nella prevenzione del diabete, soprattutto in pazienti ad alto rischio, con alterata glicemia a digiuno e ridotta tolleranza al glucosio. Sarebbe opportuno - precisa la Dawson-Hughes - condurre degli studi clinici di vasta scala per confermare queste ipotesi» .
Anche nell'ambito delle patologie autoimmuni, la vitamina D sembra svolgere una funzione specifica. Da uno studio italiano del 2010 , che ha coinvolto 1.191 pazienti con artrite reumatoide in 22 centri sul territorio nazionale, è emerso che bassi livelli di vitamina D erano significativamente associati a disabilità e attività della malattia.
Sempre secondo Giustina, le recenti evidenze scientifiche hanno rilevato che bassi livelli di vitamina D sono presenti inmolte malattie: «Per esempio quelle cardiovascolari, come lo scompenso cardiaco, l'ipertensione e correlano con il rischio di mortalità da cause cardiache. Inoltre, l'ipovitaminosi D è stata associata con una maggiore suscettibilità alle infezioni tanto che almeno nel bambino uno studio ha dimostrato che l'assunzione invernale di vitamina D ha ridotto in modo significativo i casi di influenza. Per quanto riguarda il sistema respiratorio, è stata riportata una correlazione con le riacutizzazioni dell'asma. È importante sottolineare come l'associazione tra vitamina D e l'insorgenza o la gravità di molte malattie è spesso basata su studi epidemiologici, che dovranno essere confermati da studi clinici di intervento. Oggi comunque vi è sufficiente evidenza per affermare che l'assunzione di questa sostanza quando ve ne sia una carenza è sempre più importante».
Questo soprattutto vale nella popolazione italiana: secondo i più recenti studi, l'86 per cento delle donne sopra i 70 anni ha una vera e propria carenza di vitamina D.
Ma questo avviene anche nei soggetti giovani e sani: il 35 per cento ha livelli carenti e il 65 percento insufficienti.
Il fabbisogno di vitamina D varia da 1.500 unità internazionali al giorno per adulti sani a 2.300 unità internazionali al giorno per gli anziani; può essere più alto nei soggetti con particolari condizioni di carenza. L'alimentazione (in particolare latte e derivati, grassi animali e pesci grassi, come il salmone) contribuisce in media per circa 200 unità internazionali al giorno, pari a circa il 20 per cento del fabbisogno. Il restante 80 per cento dovrebbe essere garantito dall'esposizione solare, fondamentale per la sintesi della sostanza nel nostro organismo. Nelle persone con età superiore ai 60 anni, che non trascorrono molto tempo al sole, un ulteriore assunzione di 600/1.000 unità internazionali al giorno sembra essere ragionevole.
Secondo un altro autorevole relatore al Congresso, il prof. Robert Adler del Veteran Affairs Medical Center e dell'Università della Virginia, Richmond (USA), nella popolazione canadese e americana l'apporto giornaliero di vitamina D ottenuto grazie alla dieta è di circa 200 unità Internazionali, mentre l'attivazione della vitamina D attraverso la pelle è diminuita a seguito della riduzione del tempo di esposizione al sole, del timore dei tumori della pelle, dell'uso dei filtri solari.
«Di conseguenza assumere vitamina D è necessario per molti individui, soprattutto per le persone anziane» ha sottolineato Adler.
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